Racconti
d’Africa: Elegia “continentale” di Pititto
(1° “ca custa lon ca custa”)
“ca custa lon ca custa”, costi
quel che costi. Con queste parole il Generale Menabrea
incitava i suoi uomini, Italiani e Ascari, a costruire un
ponte su un largo ed imprevedibile torrente che separa
Massaua da Dogali. Ad ogni piena il ponte era spazzato via,
ma “ca custa lan ca custa” bisognava ricostruirlo. Sono
parole oggi incise su quel ponte a ricordare un altro tempo,
un altro secolo, una guerra ormai dimenticata. Dogali è uadi
disseccati, brulle colline di ciottoli e terra rossa, acacie
rare e troppo assetate per essere più che miseri cespugli,
ricchi di spine più che di foglie. Dogali è un cippo, un
monumento su una ripida collina, misera altura che però
domina il paesaggio. Lì poche parole incise su un marmo
raccontano di sacrificio per il Re e la Patria, davvero
un’altra epoca, un’altra Patria. Dogali è un vecchio
eritreo, esile, disseccato dal sole impietoso, dal colore di
cuoio vecchio, con un’improbabile divisa da Ascaro, troppo
grande per lui, che orgoglioso sorveglia un registro dove i
rarissimi visitatori appongono la firma e, se vogliono, un
breve commento. Sulla stessa collina il vento caldo e secco
muove le due bandiere. Chi le guarda dal basso, percorrendo
la strada, forse per un attimo si chiede cosa rappresentino,
forse, se non è troppo veloce, legge l’insegna in Italiano
“Monumento ai caduti di Dogali”, forse. In un attimo la
collina è alle spalle, immobile nell’aria rovente,
disseccata dal vento, che non rompe il silenzio stranamente
gelato.
Il cammino inizia in un fresco mattino di metà
Novembre. Dal centro d’Asmara ci dirigiamo a Nord. A guidare
il gigantesco Land Cruiser, nel quale anche dopo aver
caricato i nostri bagagli, continuiamo a sentirci come in
una piazza d’armi, è Ghillè, un uomo senza tempo apparente,
baffetti grigi, occhi sempre sorridenti, la pelata lucida al
sole, una vera miniera, lo scopriremo presto, di notizie ed
aneddoti.
Percorriamo Viale Francesco Crispi, una bella strada
elegante e Ghillè ci fa subito notare, sulle colonne in
pietra di un grande cancello, che chiude il cortile di una
palazzina, le stellette dei Carabinieri. Era la vecchia
Caserma dell’Arma ad Asmara. In fondo l’Ospedale Orotta,
dove lavoriamo, un tempo il vecchio nucleo si chiamava
Regina Elena. Lo sovrasta una ripida collina, oggi sede
della Televisione eritrea, che conserva il vecchio nome di
Forte Baldissera, il Generale Italiano che vi si arroccò nel
1887, dopo la batosta di Dogali. Ai piedi della collina gli
Italiani costruirono le prime case in muratura
dell’altipiano.
E’ sabato e gli allevatori conducono il
bestiame in un’ area, subito a Nord della Città. E’ un
grande mattatoio all’aperto ed assistiamo, dall’auto, a
cruente scene. Vitelli, capre e pecore finiscono sgozzati,
quasi come in un antico sacrificio, ma l’aria è di festa,
ricca di parole, di ragazzi, di frenetiche trattative di
compravendita. Ci dirigiamo verso Keren, ma piegheremo ad
Est molto prima di raggiungerla. La zona è costellata da
piccoli villaggi, circondati dai campi coltivati. Ogni
nucleo ha la sua diga, il suo invaso : qui l’acqua è
vita, ci ricorda Ghillè. Dopo una quindicina di chilometri
il bivio per Massaua, percorse poche centinaia di metri
troviamo il primo posto di blocco. Mentre Ghillè, mostra i
nostri documenti e i permessi ai militari di guardia,
diventiamo l’inevitabile oggetto della curiosità di una
frotta di bambini, uguali a tutti i bambini del mondo. Il
via libera alla ripartenza è dato dall’abbassamento di una
corda, rattoppata in più punti, assai improbabile sbarra. La
strada s’inerpica ancora un poco verso il margine
dell’altipiano e raggiungiamo quota 2500, tra nuvole basse
che, a detta di Ghillè, ci negano panorami mozzafiato. Non
abbiamo motivo di dubitarne. Comincia in un’aria decisamente
umida e fredda, la discesa, fatta di nebbia e tornanti,
almeno per i primi sconcertanti chilometri. Per fortuna dopo
qualche minuto le nuvole cominciano a concederci squarci
sempre più ampi ed appare ciò che fino a quel momento c’era
stato negato. Scarpate ripidissime, verdeggianti di una
natura via via più rigogliosa, appena ferita dal lungo
eroico nastro grigio che svolge le sue spire in basso, verso
oriente. Ad un tratto un gigantesco fantasma compare in un
banco di nebbia da poco addensatosi. Ci fermiamo e, per
fortuna, un colpo di vento pulisce l’aria. E’ un gran
sicomoro, maestoso, che ci sovrasta elegante e sussiegoso.
L’albero della saggezza, all’ombra del quale ancora oggi, ci
dice Ghillè, si riuniscono gli uomini per dirimere
controversie, prendere decisioni importanti, a volte vitali
per il villaggio. E’ un albero antico più dell’uomo, che
ombreggiava i cortili dell’Egitto dei Faraoni, che dava il
legno per i loro raffinati mobili. E’ l’albero dove si
ritrovano le donne, dopo il duro lavoro della casa, per
raccontarsi i loro segreti, mentre sorvegliano i figli più
piccoli che giocano nella prospiciente radura. Poco più
avanti incontriamo un gruppo di queste donne: mille colori
nelle vesti, un ombrello variopinto che passa di mano in
mano durante la danza, Ghillè traduce il loro canto, una
nenia gioiosa e ripetitiva, invocano la Madonna e la
pioggia. Strano connubio tra sacro e pagano, ma senza
dimenticare i doveri per il viandante; ci viene offerto
sottile pane d’orzo. Sarà l’aria frizzante, l’ora del
mattino ormai avanzata, ma nulla c’è sembrato così buono
come questo cibo offerto dalle danzatrici della pioggia. La
strada si addentra nella foresta tropicale e scorgiamo
frotte di macachi, mentre fuggono tra gli alberi, aiutati
dalle lunghe code prensili, all’arrivo del gigante
d’acciaio, che stamane disturba la loro colazione a base di
colorati frutti. Scendiamo rapidamente di quota, mentre
attraversiamo coltivazioni di caffè e campi arati, che
continuano ad alternarsi a macchie di foresta. Mentre l’aria
diventa dolce compaiono agrumeti e splendidi manghi attorno
a belle case al bordo della strada. Di tanto in tanto
cespugli di bouganvillae : sono il segno inconfondibile, ci
rivela Ghillè, degli Italiani. Ogni “coloniale”, cosi lo
definisce il nostro Cicerone, piantava questi cespugli,
intorno alla sua casa, quasi sempre a contornare il cancello
di ingresso al cortile, o a “bordare” il portone
dell’abitazione. Anche questo era l’Italia in questo lembo
d’Africa. L’aria ora è assai più dolce e con essa si
addolcisce anche la strada che attraversa la valle di
Fil-Fil, verde di agrumeti, manghi, banani, risuonante per
il canto di mille, coloratissimi uccelli, che svolazzano tra
il lilla delle bouganvillae. Un’insegna ci avverte che in
una certa area si può campeggiare : improbabile richiamo in
questo sconosciuto Eden. Ricominciamo rapidamente a
scendere, altrettanto velocemente muta il clima ed il
paesaggio. Scompaiono bruscamente i frutteti e nell’aria
sempre più calda distinguiamo le acacie, dapprima grandi e
maestose, poi sempre più basse. Ai lati della strada non più
macachi o babbuini dalle rosse natiche, ma dromedari allo
stato semi-brado che incessantemente brucano i germogli tra
le spine. Il loro passo lento appare elegante, la loro
espressione quasi sussiegosa o, forse, più semplicemente,
stupida. Vicino alle madri i piccoli, che devono
accontentarsi delle piante più basse, le quali peraltro sono
sempre più numerose, a mano a mano che scendiamo. Tra le
acacie, sempre più rade, la terra è di un rosso cotto dal
sole sempre alto ed impietoso. Ora è quasi pianura, solcata
da uadi in secca che solo pochi giorni fa hanno scatenato
l’inferno. La pioggia che qui è un regalo benedetto, può
anche essere una terribile calamità. Ed è quanto è accaduto
solo una settimana addietro. Il nastro d’asfalto scende
negli alvei dei torrenti in secca, non ci sono ponti, non
servirebbero magari per anni e in altre occasioni sarebbero
travolti dalla piena. In questo modo invece l’acqua può
superare senza grandi danni la carreggiata. Ma non sempre
accade così, l’ultima piena ha sorpreso molta gente. Ghillè
ci indica il guado dove una bambina di due anni è stata
travolta, il corpo è stato sepolto da pastori nomadi che lo
hanno trovato ad una ventina di chilometri. Solo dopo la
pietosa incombenza, figlia di una pietà più antica dei
diversi credi religiosi, che accomuna tutti gli uomini di
una terra spesso ostile, hanno cominciato a chiedere intorno
di chi era quel piccolo corpo martoriato dal fiume. La
pioggia apportatrice di morte ha anche regalato a questa
terra bruciata un tenue manto d’erba smeraldo, fatto a
chiazze, a dire il vero, ma che pur sempre splendidamente
interrompe il rosso mattone di queste basse colline. Sono i
dromedari e le capre i veri beneficiari di questo inatteso
quanto effimero regalo. Un ventina di chilometri ad ovest di
Massaua incrociamo l’altra strada, che scende diritta
dall’altopiano verso est. L’incrocio è contrassegnato da
decine e decine di baracche, bambini impolverati che corrono
inseguendo capretti, dromedari innervositi da tanta
confusione, pastori che con lunghi bastoni guidano mandrie
di capre, magre come loro, polvere e grida, nel sole sempre
accecante, caldo e sudore che ci scorre accanto, mentre il
pianoro ci accompagna verso il Mar Rosso che già si
intravede. Poi di colpo la città, perla di questo mare: una
striscia di case basse sulla terraferma delimita le saline,
costruite sulla riva. Ma la vera Massaua è sulle due isole
basse, collegate tra loro e al continente da ponti poggiati
su bassi scogli corallini. L’isola esterna è il vecchio
quartiere arabo, ricco di Moschee, le Chiese sono confinate
alla prima isola. Un grande porto vuoto tradisce
l’appannamento della perla, ferita anche dalle cicatrici
esposte dei conflitti che l’hanno attraversata. Due carri
armati di fabbricazione sovietica, i primi, ci racconta
ovviamente Ghillè, a entrare a Massaua nel 90’ togliendola
agli Etiopi, sono un assai triste monumento a quella lunga,
sanguinosa guerra per l’indipendenza. Tante illusioni,
speranze, prospettive, cancellate ora in gran parte, dalla
solita realtà fatta di abbandono e miseria. L’albergo è
sulla terraferma, nuovissimo, molte camere non sono ancora
completate ed anche le nostre, per la verità, mancano ancora
di qualcosa. Niente d’importante, per carità, in compenso
sono pulite e dotate di grandi ventilatori sul soffitto.
Siamo gli unici ospiti. Il caldo in questa stagione è
accettabile e di raro la temperatura arriva a quaranta
gradi, ben diverso da luglio ed agosto, quando spesso siamo
a cinquanta con una umidità da bagno turco. Purtroppo le
piogge recenti hanno regalato una grande nidiata di mosche,
che saranno le nostre indesiderate compagne di viaggio in
questi giorni. La sera ceniamo nel quartiere arabo, su uno
spiazzo di terra, assai malamente illuminato, in compagnia
di decine di gatti in trepidante e rumorosa attesa degli
avanzi, ci vengono serviti giganteschi pesci cucinati in
cilindrici forni di pietra. Sono deliziosi e il sapore
compensa ampiamente i piccoli disagi di noi “occidentali”,
disabituati a certe “scomodita”. La mattina dopo il sole dal
mare illumina un’altra isola, esterna alle prime due, dove è
poggiata Massaua. L’isola verde, giudicata troppo piccola
per gli uomini, separata dalle altre da un profondo canale
di intenso blu, è perfetta per gli uccelli che nidificano
tra i bassi cespugli, che la ricoprono in gran parte o
banchettano nei banchi di sabbia e fango, che la bassa marea
lascia scoperti un paio di volte al giorno. La sabbia è
bianchissima, ricca di gusci disabitati, coralli sbiancati e
di paguri in fuga; l’acqua caldissima cela pericolose
insidie, ricci e conchiglie altrettanto spinose. Tra scogli
di corallo e strisce di sabbia i pesci, coloratissimi,
guardano da vicino, senza timore, gli strani e goffi esseri,
che con maschera e boccaglio li osservano, altrettanto
stupiti. Il sole, sempre alto sull’orizzonte acceca e
riscalda, mentre la marea risale e copre il fango, in un
lento immutabile ciclo. A Occidente le basse, chiare case di
Massaua attendono la barca che ci riporta sulla terraferma.
Nel primo pomeriggio inizia il ritorno verso l’altipiano, i
cui margini si distinguono appena, ineguali cime di un
azzurro appena un po’ diverso da quello del cielo, tra la
foschia verso il tramonto. E’ la vecchia strada italiana
costruita a partire dagli inizi del Novecento; prima solo
piste di terra, nel 1903 la prima rotabile da Asmara si
dirigeva a Sud, a Saganeghi. Raggiungiamo il villaggio di
Incullo, da qui negli anni ottanta dell’Ottocento, partiva
la ferrovia che raggiungeva Dogali e Maiatal, la stazione
ferroviaria d’arrivo, costruita negli anni successivi alla
battaglia. Fino all’86’, la strada ferrata raggiungeva solo
Dogali. Da Incullo partiva un’altra grande opera costruita
dagli Italiani, in un paio d’anni a partire dal 1935, la
teleferica. Mille e cinquecento carrelli, settantaquattro
chilometri, che inesorabili e lenti risalivano il grande
margine dell’Africa Orientale, avvicinandolo al mare. Gli
Inglesi l’hanno portata via negli anni cinquanta, al termine
del loro “protettorato”. Qui non sono benvisti. Maiatal è
all’inizio di una larga pianura, è il piano di Sabarguna,
una zona ricca di acque termali, dalla geologia inquieta,
con i segni di antiche e recenti colate laviche. La strada
italiana si inerpica ardita, è costata sudore e sangue,
italiano ed eritreo, mescolato assieme a rendere ancora più
acceso il rosso di questa terra. Un monumento, una grande
croce di pietra ricorda quei caduti di quest’altra guerra,
ai margini dell’asfalto, all’ombra di stentate acacie.
Spesso procediamo affiancati alla strada ferrata, lungo
stretti percorsi alluvionali dove la natura ha relegato gli
uomini. La ferrovia raggiunse Asmara prima della strada, il
primo viaggio il cinque novembre del 1912. Oggi è
tristemente ferma, solo di tanto in tanto un unico treno
trasporta visitatori stranieri, semplici turisti, magari
annoiati e pentiti per aver scelto le scomode, traballanti
carrozze, incapaci di comprendere cosa quel treno
rappresentò in quelle terre. Quel che rimane adesso è
un assai triste simulacro della gloria di un tempo. Ci
fermiamo a mangiare appena la strada inizia a salire, tra le
basse colline. E’ da qualche chilometro che Ghillè scansa
irrequieti capretti che attraversano il nostro cammino,
mentre grandi mandrie pascolano ai margini del percorso
d’asfalto. La locanda ci offre naturalmente capretto
arrostito. Combattiamo contro le mosche che tentano di
disputarci il pranzo. Il capretto è saporitissimo, nel
cortile un vecchio irascibile caprone tenta invano di
spezzare la corda per caricarci. Probabilmente abbiamo
appena divorato uno dei suoi innumerevoli figli. La strada
sale rapidamente : il villaggio di Dongallo, basso e alto e,
subito dopo di nuovo il cammino si spiana nella fertile
piana di Ghinda. Orti e frutteti si succedono regalando un
verde gioioso che interrompe l’arido colore del deserto.
Ghinda fatta di piccole case disseminate in un armonico
disordine, di strade troppo ampie per il suo ridottissimo
traffico, con la sua grande e silenziosa stazione
ferroviaria, morti binari, immensi cumuli di carbone,
rugginose locomotive, un tempo sbuffanti. L’Ospedale, nuovo,
elegante, splendidamente adagiato in una conca ai margini
dell’abitato, mestamente silenzioso, vuoto, senza medici e
pazienti, monumento all’insipienza degli uomini. La
salita si fa via via più ripida, mentre l’aria, complice
l’incombente tramonto, rinfresca rapidamente. I villaggi si
susseguono senza sosta, Imbatakallo, Nefasi, Arbaroba,
Durfo. Gruppi di case tra stentati campi coltivati, ma è
Domenica pomeriggio e il soffio d’Occidente è rappresentato
da impolverati giovani che si danno battaglia, all’ultimo
sangue naturalmente, su altrettanto polverosi campi di
calcio. Le urla le imprecazioni, supponiamo, sono le stesse
che in tutto il resto del mondo, forse diversa è solo la
polvere rossa che, per fortuna, qualche raro colpo di vento
spazza via, rendendo per qualche minuto l’aria nuovamente
respirabile. I ripidi versanti sono ricoperti da boschi di
fichi d’india, che, ci ricorda Ghillè sono una benedizione,
impedendo le frane durante le rare, violentissime piogge.
Poco prima del tramonto, con un ultimo sforzo il Land
Cruiser si inerpica lungo i ripidissimi chilometri finali.
Ora c’è gente lungo la strada, siamo vicini alla città.
L’ultimo posto di blocco, i soldati stanchi ci fanno cenno
di passare senza controllarci, la corda rattoppata è
ingloriosamente a terra. Un cimitero inglese, le case della
“forestale “ italiana, tra pini, cespugli di pepe selvatico
ed immancabili acacie. Il sole tramonta tra le case di
Asmara, tra un momento sarà notte, la lunga buia notte
africana, ma ancora per un momento un ultimo splendido
riflesso di luce ci acceca di rosso, il rosso delle colline
di Dogali, del sangue, del deserto, dei torrenti in secca,
di questa terra spesso avara, difficile, sempre
meravigliosa come gli uomini che la possiedono.