Berselli

Vincenzo Gagliardi
Il pane tra storia e leggenda


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Introduzione
Il pane tra storia e leggenda
Nel momento in cui l'uomo cessò di essere nomade e di nutrirsi essenzialmente di caccia e pesca e trovò una dimora stabile, sentì la necessità di avere un nutrimen­to a continua portata di mano. Dissodò il terreno e coltivò il frumento, come quello che alla elevata risorsa di potenziale nutrimento abbina una facile e lunga conserva­zione nel tempo. Non è certo ove ebbe origine questa graminacea che da sempre co­stituisce la base dell'alimentazione umana, né si conoscono le origini dai quali ebbero sviluppo i vari cercali. Gli antichi lo consideravano come dono degli Dei, ed i diversi popoli attribuirono a Saturno ad Iside, a Giano l'introduzione del frumento. Gli Sciti offrivano ogni anno agli Dei un aratro ed un giogo di oro, strumenti agrico­li che vennero un giorno loro elargiti dal ciclo. Gli Ebrei avevano abitudine, ogni sabato, di porre nel tabernacolo dodici pani azzimi, uno per ciascuna tribù che chia­marono pani di "Proposizione o di offerta", solenne attestato che davano come debi­tori a Dio del loro nutrimento. D'altronde già i primi documenti paleontologici e let­terari a noi pervenuti sulla civiltà dell'uomo ci parlano del frumento. Tra le rovine dell'antico Egitto furono portati alla luce dei veri forni, nelle abitazioni lacustri del­la Svizzera si rinvennero cereali ed il Pommerol nel 1866 ritrovava, fra le ceneri dei focolai di Martres di Vcyre, grano carbonizzato. E mentre gli storici della Cina con­fermano che già 2.800 anni a.C. si coltivava il frumento, la Bibbia accenna a questo cereale come nutrimento dell'uomo. (Abramo dice a Sara: "impasta tre misure di frumento e falle cuocere sotto la cenere" — Gen. e. XVIII, 5, 6). Ma se la coltura dei cereali è contemporanea ai primi albori dell'incivilimento dell'uomo, solo quan­do l'uomo raggiunse un certo grado di civiltà, seppe trasformare il frumento in fari­na e da questa in pane. Gli storici affermano che nell'Asia, considerata la culla dell'umanità, i Cinesi già nel 2000 a.C. conoscevano il lievito e quindi l'arte di fare il pane. Gli Egiziani attribuivano al loro primo re Memi l'introduzione del pane; gli Ebrei durante la loro prigionia in Egitto impararono a servirsi del lievito. Dall'Asia Minore l'arte della panificazione passò nella Boezia: due Beoti, di ritorno da unn lugoviaggio insegnarono ai concittadini il modo di fare il pane: in segno di gratitudi­ne furono erette due statue. Dalla Boezia il pane passò nella Grecia, e da qui, dopo la spedizione Macedone, in Roma. I Romani poi portarono, attraverso le loro vitto­riose battaglie, la panificazione nei vari paesi del settentrione. I Fenici già, a mezzo delle loro colonie, avevano introdotto in alcune località del Nord l'arte di fare il pa­ne, per cui a Marsiglia si panificò prima ancora che presso i Latini. È certo, comun­que, che fino al XVIII secolo, in alcune zone della Norvegia, si usarono sistemi as-sai primitivi, quali adoperavano i nostri lontani antenati. Ma la leggenda del pane vive intatta tutt'ora: le ultime tribù indiane dell'interno della California e di altre lo­calità dell'America, si servono di mulini rudimentali fatti di due pietre sovrapposte e mosse a mano quali quelle degli antichi Romani. Gli indiani del Messico mangia­no ancora i cereali grossolanamente triturati e cotti nell'acqua salata, in modo di ot­tenere una minestra ben condensata e la focaccia senza lievito, essiccata al sole, o cotta fra le pietre del focolare, è la maniera più comune nella quale utilizzano la fa­rina dei cereali i Beduini, i Nubiani ed altre popolazioni dell'Africa centrale.
I Romani, si è già detto, impararono tardi l'arte di fare il pane. Dalla antichità di questo popolo e la ricchezza di storia che ha lasciato, ci risulta facile seguire le di­verse fasi per le quali passò la preparazione del frumento come alimento dell'uomo presso i Latini. Gli antichissimi Romani consumavano il frumento, in grani interi o grossolanamente pestati, bolliti in acqua salata.
Già al tempo di Numa Pompilio era conosciuta la macinazione: fra i vari collegi di arti che diconsi istituiti dal secondo re di Roma figura il collegio dei "pistores" ossia dei macinatori. È certo che la macinatura dei primi tempi doveva essere molto grossolana se si riguarda alla macine di quell'epoca che sono giunte fino a noi. Sono fatte di due pietre sovrapposte, l'inferiore più larga della superiore, con concavità nel mezzo, sulla quale combacia la convessità della pietra superiore. Questa veniva mossa circolarmente a mano, a mezzo di un cavicchio di legno che era incastrato in un foro eccentrico di essa. Posteriormente queste macine furono sostituite da altre di più facile maneggio. Su di un tronco di cono, fisso, chiamato "meta o pilastrino", veniva a combaciare un tronco di cono vuoto internamente, chiamato "cotillus o va­so", provveduto superiormente di una specie di imbuto, entro cui si versavano i ce­reali. Questi, a mezzo di appositi fori, venivano a cadere fra la superficie esterna del cono inferiore e la interna del cono superiore, ove avveniva la macinazione. Un gambo di ferro permetteva di allontanare od avvicinare all'abbisogna le superficie macinanti. Sul "cotillus" erano incastrati due lunghe assi che servivano a metterlo in movimento circolare. Gli schiavi, i prigionieri ed i servi, erano destinati a girare le macine: più tardi tale compito intorno alle assi fu affidato agli animali da tiro, spe­cialmente asini, onde il nome di "molae asinarie". Si dovrà attendere l'impero di Augusto per assistere al ricorso, per la prima volta, alla forza del'acqua per il movi­mento delle macine; però i mulini idraulici non si generalizzarono che molto più tar­di e precisamente nel IV secolo d. C....
Stante i mezzi non certo perfetti di macinazione che i Romani possedevano, si sottoponevano i cereali a vari trattamenti onde facilitarne il disgregamento. Per la pri­ma volta al tempo di Numa Pompilio si procedette alla tostatura del frumento onde renderlo più friabile: fu istituita all'uopo una festa a ricordo di una sì utile invenzione.
In epoche posteriori si usò rammollire i grani con l'immergerli per qualche tem­po in acqua e poi esporli al sole. Sia nell'uno che nell'altro caso, prima di avviare i cereali alle macine, venivano spezzettati in mortaio a mezzo di pestelli di legno ferrato. Ottenuta la farina, nei tempi più antichi si cominciò a mangiarla sciolta e cotta nell'acqua. E Plinio ci riporta come anche ai suoi tempi fosse ancora in grande repu­tazione il pane cosiddetto di "Alica", inventato nel Piceno che si preparava facendo macerare la farina per nove giorni di seguito, e cuocendola al decimo al forno, entro una pentola, congiunta al sugo di radici aromatiche. Molto più tardi si escogitarono altri tipi di cottura tendente soprattutto di ottenere un preparato che si conservasse per qualche tempo, senza doverlo apparecchiare ad ogni pasto. Si dette, quindi, una certa consistenza alla poltiglia in modo da formare una vera pasta che fu chiamata più semplicemente "massa". La "massa" fu dapprima seccata al sole, poi fu cotta sotto la cenere del focolare, o fra pietre, o fra superfici metalliche riscaldate, o fritta nell'olio o ancora in altri grassi. Si ottennero così delle piccole focacce che potevano trasportarsi e conservarsi per qualche tempo. La loro confezione fu svariatissima poiché alla farina si mescolarono grassi, miele, burro, formaggio uova, zafferano, ecc..
Si dovrà arrivare nell'anno 172 a.C, nell'epoca della spedizione in Macedonia perché i Romani scoprissero l'uso del lievito, e la panificazione in generale quali noi la intendiamo oggi. Di rientro vittoriosi dalla Grecia, ove avevano avuto modo di apprezzare i vantaggi del frumento, condussero con loro fornai greci. E da popolo attento curatore di tutto quanto si riferiva al benessere comune instituì il collegio dei panettieri, sottoposto a regole severissime, per garantire un numero di fornai sempre proporzionale alla popolazione della città, e quindi un sufficiente rifornimento di pane accurato e continuo. Così, tra l'altro, ai fornai era severamente proibita la alie­nazione delle proprie sostanze, perché poi la miseria non li costringesse a sofisticare un alimento tanto fondamentale per l'uomo.
La loro corporazione era ricca di privilegi quali la dispensa da ogni tassa o bal­zello; i figli dei fornai facevano parte di diritto del collegio dei panettieri, dal quale erano severamente esclusi gli schiavi ed i servi.
I grani pubblici somministravano loro i cereali necessari ed essi non potevano vendere il pane ad un prezzo superiore a quello stabilito.
Nell'epoca di Augusto circa trecentotrenta fornai pubblici operavano in Roma. In quell'epoca la panificazione toccò la sua massima espressione di perfezione.: Orazio, nel magnificare l'ospitalità di Mecenate, loda il divino Falerno e lo squisito pane bianco che il munifico anfitrione aveva loro apprestato. Ma se al profano sem­bra non passino profonde differenze fra il pane cantato da Orazio ed il pane dei no­stri giorni, pure, è per il perfezionarsi degli studi chimici e per i progressi sempre più notevoli della tecnologia, tutto quell'insieme di operazioni, che il granello di frumento si trasforma in odoroso e biondo pane, che rimane, pur sempre, alla base dell'alimentazione umana.