Franco

1976/1979:   Il tempo di una speranza

 

Il tentativo di un Compromesso storico e la Presidenza della Cassa di Risparmio

 

Non c’era utopia, non c’erano predizioni, c’era anche incertezza a proposito del dove saremmo andati a parare; ma c’era la speranza che quella fosse la via migliore.

 

C’era la voglia di confidare nella storia del Paese – segnata dalla virtù risorgimentale che accomunava - ma ancor di più si provava la consapevolezza del nostro “impegno nella storia”.

 

Naturalmente scetticismo in alcuni ed entusiasmo in altri.

 

Albeggiava tuttavia la “miseria della politica” – quella degli opportunismi esasperati,  del “non credere”  e  del non avere un progetto ambizioso - dopo anni di passioni forti: si voleva rifiutare la politica della miseria immaginando, senza fughe profetiche, la forza della comunità la forza del popolo calabrese appena uscito dai drammatici e dolorosi fatti di Reggio, che avevano messo a nudo la fragilità della condizione sociale della Regione e la non lucida comprensione degli eventi da parte di chi di grandi responsabilità ne aveva.

 

Una idea era comune a tutti, agli scettici ed agli speranzosi: le buone intenzioni non erano più sufficienti; la storia e la tradizione dei rapporti politici e dei loro equilibri era un avvio; ma era necessario avvalersi dello spirito autocritico, indispensabile per correggere in tempo gli errori e le usure, prima che diventassero tanto gravi  da non  consentirne il riparo.

 

La tesi politica di Moro, quella della terza via - cui corrispondeva la tesi Berlingueriana della unità delle forze popolari per assicurare lo sviluppo del paese al riparo dagli avventurismi minacciosi della destra evocati dalla vicenda cilena - perseguiva e presupponeva allo stesso tempo l’unità del paese, ma anche la sua verifica e quella delle sue prospettive, a trentanni dalla rinascita della democrazia e dalla fondazione dello Stato Repubblicano.

 

Veniva usato un termine, fin troppo esposto a critiche inevitabili: “compromesso”; a testimoniare un metodo di lavoro politico ed un passaggio obbligato per quella verifica: il modo di proseguire dello Stato unitario, delle sue funzioni parlamentari e di governo centrale e regionale.

 

Tuttavia, a  ben osservare, i processi politici italiani a quel metodo si erano ispirati.

Fu il “compromesso”  la chiave di successo della politica di Cavour, fra la tendenza al puro espansionismo piemontese e la volontà di integrazione delle popolazioni meridionali e non solo, ai processi unitari.

 

Giolitti utilizzò il “compromesso” fra la Borghesia del Nord - in pieno processo di accumulazione di capitale in ragione della sua industrializzazione - e i militari, utilizzando il becero sistema degli ascari meridionali, realizzando così il compromesso fra le classi dominanti:  fu allora che sorse sul piano politico la questione meridionale, ben dopo lo “scandalo” della visita di Zanardelli.

 

Il vero scontro politico non si verificò fra i contadini meridionali e la borghesia del nord; fu invece conflitto epocale fra la Borghesia del Nord e la nascente Borghesia del Sud che poteva costituire un punto di riferimento nel quadro dei nuovi scenari dello sviluppo urbano e delle attività manifatturiere. Risultò la sconfitta della Borghesia del Sud e la destinazione del Mezzogiorno all’assistenzialismo.

 

Fu il “compromesso nazionalistico” che consentì a Mussolini l’unità del Paese attraverso il messaggio della unica identità nazionale ai diversi ceti sociali, agli abbienti, agli industriali, agli artigiani ai contadini, agli attori dei mestieri che fino ad allora avevano contato nulla, ai cittadini delle città e della campagne, a quelli dei borghi.

 

Fu il “compromesso parlamentare” a consentire l’equilibrio del sistema politico del dopoguerra con la coesistenza delle politiche degasperiane e laiche con quelle togliattiana e della sinistra, nell’intento di tenere unito e coeso il Paese con l’adozione delle linee politiche occidentalistiche europeiste e liberali; al disegno la sinistra non riuscì di opporsi, senza mostrare tuttavia la sconfitta avendo sagacemente mantenuto il contatto con molta parte della società italiana, attraverso appunto un ulteriore corollario compromissorio che, memore delle tesi di Gramsci componeva uno schieramento che andava dagli operai ai contadini agli intellettuali fino alla imprenditoria disponibile .

 

Aldo Moro era pienamente consapevole che l’Unita politica del Paese  ed  il suo compimento dovesse passare attraverso il “compromesso politico” che finalmente avrebbe compiuto il lungo travagliato cammino del popolo Italiano verso l’unità del Paese e delle sue articolazioni di autonomia e di decentramento, più volte minacciata, più volte interrotta.

 

I punti di maggiore coerenza erano infatti la ristrutturazione della organizzazione del consenso e della ulteriore laicizzazione della politica, in anticipo su quel che sarebbe avvenuto dieci anni dopo la scomparsa di Moro, con la caduta del Muro di Berlino.

 

La necessità di tale ulteriore compromesso era sicuramente dettato anche dal malessere diffuso, dalla tendenziale estesa noncuranza dello Stato e delle forze politiche indecise sul futuro, dalla creazione di interstizi in cui andava lavorando con decisione il terrorismo nostrano che tendeva a fornire di sé una immagine referenziata ed ingigantita.

 

Obiettivi del Congresso della D C calabrese del 1976 dunque furono:

1) la ricostruzione dell’unità politica dei calabresi dopo gli strappi dei cinque anni precedenti

2) la proposta di politiche della solidarietà

3) la elaborazione autonomistica di programmi di sviluppo con la utilizzazione di strumenti innovativi 

4) la sperimentazione di forme di governo a sostegno delle suddette azioni

 

Non fu facile.  Non c’erano solamente le divisioni interne a tutti i partiti, le logiche antagonistiche e tattiche. C’era la non condivisione di quella prospettiva da parte socialista, la pregiudiziale anticomunista e antisinistra presente anche nei più disponibili al dialogo, a volte un eccessivo pragmatismo da parte del PCI, la inesistenza di rapporti con la destra che non era compresa nel Patto Costituzionale, speciosa invenzione, immaginata dalla Democrazia Cristiana al Congresso del 1972, ma utile tatticamente ad organizzare un preambolo politico finalizzato ad  accelerare e rinsaldare il dialogo tra il Centro politico e la sinistra, nel Paese ed in Parlamento, insieme all’unità sindacale su cui insisteva soprattutto la CGIL.

 

La Giunta Perugini cade perché era utile costruire un esecutivo funzionale alla linea politica uscita vincente dal Congresso della DC del 1976.

 

Ero stato eletto Segretario regionale del partito ed avevo più di un dubbio sulla necessità di provocare quelle dimissioni immediatamente, ma prevalse negli organismi del Partito la tesi delle dimissioni subito.

 

Si sviluppa il dibattito fra le forze politiche e dopo faticose trattative prevalgono le ragioni delle nuove alleanze sulle esigenze delle gestioni, giacchè all’epoca c’era distinzione fra la gestione della linea politica e la gestione dei governi, elemento rimarchevole che rendeva il partito politico protagonista – luogo di partecipazione e di rappresentanza estesa – , prima ancora dei governi che tuttavia allo stesso tempo esercitavano un potere altrettanto referenziato.

 

La saldatura fra i due poteri, politico e gestionale oggi propone al dibattito politico seri problemi che investono le modalità della azione democratica; così nel 1955 la DC si era trovata nel dilemma della sovrapposizione dei due poteri, politico e gestionale, e fu risolto con la caduta di Fanfani, Segretario forte della DC e Presidente del Consiglio dopo la morte di De Gasperi.

 

La DC continuò così la sua missione politica quasi per altri quaranta anni.

 

Oggi l’evoluzione ha tendenzialmente saldato il potere politico  e quello gestionale, ma c’era stata una anticipazione alla situazione di oggi con la segreteria De Mita e la Presidenza del Consiglio.

 

Nel 1976 viene eletto Presidente della Giunta regionale Aldo Ferrara, politico abile e moderato – “doroteo” di salda cultura politica come Fedele Palermo - che aveva saputo interpretare la linea del Congresso di cui Carmelo Puia era il più coerente ispiratore.

 

Agazio Loiero   

 

La vischiosità delle logiche tattiche di partito, soprattutto di quelli democristiano e comunista, impedisce dunque la formazione di una Giunta organica dei cinque partiti della coalizione: la DC, il PCI, il PSI, il PSDI, il PRI..

 

Da una nostra idea nasce tuttavia un luogo istituzionale di presenza di tutti i partiti partecipanti al Patto: la Commissione per il Piano, istituita con legge regionale ed elaborata in modo da attribuire al Partito non presente in Giunta, cioè al PCI, la Presidenza della medesima, assegnandole poteri coadiuvanti nelle decisioni di alta amministrazione.

L’esperimento fu il primo cui seguì quello delle Marche.

       

Tommaso Rossi, un uomo di ammirevole rigore morale e politico, viene eletto Presidente.

 

I socialisti accedono al patto politico e pur con difficoltà, conducono con intelligenza la trattativa avvalendosi della abilità di Cesare Marini  e di Ermanna Carci, che pur interpretando le riserve dei loro esponenti , apportano il loro contributo.

E Pino Vita repubblicano e Gaspare Conforti Socialdemocratico valorizzano la loro presenza politica.

Incombeva infatti il pragmatismo e lo scetticismo di Mancini che “non si fidava” del progetto ma non voleva perdere la battuta dei processi in atto. Egli dovette accettare molte novità anche sul piano del ridimensionamento delle aree di potere.

 

Sapevamo perfettamente che andava elaborata una strategia complessa e che sarebbe stato impossibile avviarla  senza la ricerca attenta di ciò che il quadro “moroteo” indicava ma non definiva.

 

Al Coordinamento di tale compito si dedicavano, fra gli altri, Alberto di Maio, Vito Napoli, Franco Fiorita, Medoro La Penna, Franco Cimino, Gerardo Pagano - con i quali condividevo l’ansia di fare sul serio. E meno vicini per ragioni di schieramento, altri come Aloise, Camo, Santo, Migliori, Rende, Scarpino.

 

Ricordo con piacere la intelligenza politica di Lillo Manti ed i suoi consigli, la lealtà di Gino Trematerra, mentre un ruolo tutto suo, di curiosità ironia e sensibilità per la parola ed i suoi suoni fra lo stravagante e l’originale, inaugurava Agazio Loiero; l’ansia condivisa da molti dirigenti che apportavano il loro contributo entusiasta, specialmente fra i più giovani, mostrava però più la loro tensione e passione politica che la loro reale capacità di prevalere nei confronti dei capicorrente fra i quali tuttavia si distinguevano Dario Antoniozzi ed Ernesto Pucci che si rendevano conto delle esigenze del rinnovamento.  

 

Singolare fenomeno giacchè l’uno e l’altro appartenevano all’area così detta moderata della Democrazia Cristiana e che gli avversari si incaponivano a definire conservatori.

 

La centralità della Democrazia Cristiana faceva sì che le impostazioni strategiche e lo sviluppo delle azioni influenzassero la complessa vicenda.

 

La minoranza che faceva capo a Riccardo Misasi seguì la evoluzione delle trattative e della elaborazione dei nuovi temi di programma.

 

La capacità della Democrazia Cristiana di sostenere le tesi politiche del nuovo quadro, di accelerarne i processi e di acquisire linguaggio e contenuti funzionali alla prospettiva politica dell’accordo fra le forze popolari, si inceppò allorché si dovette affrontare il nodo della riconsiderazione dello strumento finanziario idoneo a sostenere il nuovo sviluppo e quindi il ruolo della Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania.

 

Carmelo Puia, determinato ispiratore delle azioni più incisive del governo regionale, ritiene a quel punto che l’Istituto di Credito, pur rinnovato, dovesse essere gestito immaginando più conveniente ed efficace che lo strumento finanziario dovesse saldarsi direttamente con il potere politico.

 

Nella Democrazia Cristiana, in apparenza, questa tesi appariva  del tutto maggioritaria, sicchè si esprimevano a favore di una Presidenza Puia  della nuova Cassa di Risparmio molti esponenti della maggioranza, Misasi e Angelo Donato fra gli altri, mentre più riflessivo era l’atteggiamento di Tassone e Perugini; essi infatti pur avendo perduto il Congresso condividevano le preoccupazioni di Guglielmo Nucci che con grande senso di maturità politica invitava a non esasperare i toni, avendo percepito la delicatezza del momento e probabilmente, a volte, l’accortezza dell’azione della Segreteria politica regionale e della maggioranza.

 

I Comunisti non intervenivano ed il loro atteggiamento più equivoco che equidistante, nella sostanza tendeva a favorire la soluzione Puia.

 

I socialisti erano i più prudenti richiamandosi alla vecchia regola che una scelta altrui, giacchè alla Democrazia Cristiana spettava decidere, non era di grande interesse, non avendo percepito, a mio parere,  l’importanza che l’aspetto della gestione finanziaria poteva e doveva avere sull’intera fase politica dello sviluppo interpretata in chiave autonomistica ed a forte valenza popolare. Il commissariamento della Cassa di Risparmio del 1985, preludio della sua dissoluzione, li vedrà tuttavia espliciti protagonisti.

  

Similari atteggiamenti tenevano gli altri partiti.

 

L’altra tesi, sostenuta dalla Segreteria Regionale della Democrazia Cristiana, era la cosiddetta terzietà della gestione della Cassa di Risparmio perché essa avrebbe rafforzata la fiducia nelle nuove prospettive politiche, avrebbe modificato le dinamiche lottizzatorie ed avrebbe reso più snello un modello che doveva per forza di cose vedere il potere politico prevalente;  il potere del governo regionale si sarebbe così avvalso di un braccio secolare e quindi comunque terzo, in grado di corrispondere alle linee stabilite dal governo regionale e ad esse subordinando le sue azioni.

 

Nel momento delle scelte le due tesi si confrontarono ma si doveva fare i conti con i tatticismi che evocavano il raccontare di Sciascia; e per la verità l’atteggiamento più autentico e lineare era tenuto proprio da Carmelo Puia, convinto come era della sua tesi; non così i suoi sostenitori pur distinguendosi fra essi, per capacità di riflessione, Angelo Donato  e Donato Veraldi.

 

Gli eventi successivi diedero ragione alla tesi sostenuta dalla Segreteria Regionale e torto a coloro che non volevano sentir ragioni.

 

Nel periodo delle decisioni e delle tensioni nel Partito si saldò l’alleanza Puia-Misasi, ma Beniamino Andreatta Ministro del Tesoro, sostenuto da Beppe Pisanu, favorevole già nel 1979 alla soluzione che ci sarebbe stata, nel 1981 nominò Presidente un tecnico, appunto “terzo” e fra l’altro nella rosa di nomi che avevo proposto.

 

La tesi della Segreteria Regionale proseguiva, tuttavia, nel porre il tema della gestione della Istituzione Regionale nel quadro dell’accordo fra le forze popolari; veniva proposta così la necessità che direttamente l’uomo guida della coalizione dovesse essere anche il più autorevole, quel  Carmelo Puia, fra l’altro da sempre orientato nelle sue scelte alla ricomposizione sociale della Regione dopo i fatti di Reggio Calabria e interprete delle politiche della solidarietà che, negli anni successivi ai fatti di cui raccontiamo, sarà la politica della Democrazia Cristiana, pur con alterna fortuna.

 

Il fatto che Puia non fosse stato sostenuto ad assumere la massima responsabilità politica della Regione da parte di coloro che pure lo sostenevano alla Presidenza della Cassa di Risparmio, rimane per me motivo di rammarico e certamente non di mistero, avendo avuto la chiara sensazione che essi non preferissero Puia leader politico della Regione.

 

Tant’è.

 

Quella non scelta fu determinante per una Calabria che avesse voluto assumere un ruolo autonomistico e di grande energica azione positiva di riconciliazione sociale e di svolta.

 

Il fatto che non si riuscì a chiudere la seconda crisi della Giunta Regionale per l’intervenuto sequestro Moro, non avendo il tempo politico necessario per svolgere appieno il tema dell’assetto definitivo della Giunta delle Larghe Intese, è un altro rammarico.

 

Solamente l’intervento di Galloni - all’epoca Vicesegretario Nazionale della Democrazia Cristiana – dopo un lungo e concitato colloquio telefonico - e la indecisione dei Comunisti che pure mostravano sapienza tattica e strategica con il loro Segretario Franco Ambrogio,  perdurando il sequesto di Moro - mi indusse a non insistere sul prolungamento delle trattative per la nuova Giunta che duravano già da tanto tempo.

 

L’equilibrio interno si era definitivamente rotto e dopo la uccisione di Moro la elaborazione politica si bloccherà; la politica aveva subito un dirottamento verso il ritorno alle politiche della coalizione di centro sinistra con la rinuncia della Democrazia Cristiana, successivamente, alla Presidenza del Consiglio in favore del laico Spadolini.

 

Le Brigate Rosse avevano ottenuto almeno questo risultato.


Franco Petramala