Il
9 maggio1978 ricevette la telefonata dei
brigatisti (ascolta
la telefonata)che
annunciavano la morte di Aldo Moro]
ed il luogo del ritrovamento del corpo
Nel 2006 è stato pubblicato il volume “Itinerari di cultura
giuridica e politica” in omaggio a Francesco Tritto, curato da Mario
Sirimarco.
Franco Petramala
Tra l'amore e il dolore. Introduzione alla
filosofia giuridica di Aldo Moro
(Brevi
note tratte da un lavoro di Mario Sirimarco, ancora in fase di
preparazione, ispirato
dalla frequentazione con Franco Tritto.
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Il modo migliore per
ricordare Aldo Moro, per non seguire i rituali commemorativi che si
ripetono ogni 9 maggio e che hanno come unico scopo il tentativo di
accaparrarsi un’eredità culturale, penso sia quello di cercare di
studiarlo, perché Moro, prima di tutto, fu un grande pensatore. Nella ricca introduzione alla raccolta
dei discorsi e degli interventi parlamentari di Aldo Moro, Mino
Martinazzoli ha scritto che “la mediazione politica presuppone e
coinvolge una mediazione culturale, un pensiero, un confronto di idee,
un’attenzione riflessiva a ciò che manifesta il corso della storia. E’
inconcepibile svincolare l’impegno politico da questo sforzo di
razionalità pratica.
Senza intelligenza storica la politica è
condannata a dipendere dai fatti, limitandosi a registrarli o, peggio, a
subirli, anziché aspirare a governarli”. Solo per inciso è il caso di
puntualizzare che la vocazione alla mediazione nel Moro politico è
l’opposto di una scelta tattica.
Si tratta di un tema molto controverso
legato all’idea di un Moro temporeggiatore e consociativistico che
spesso viene equivocato. La mediazione, come giustamente puntualizza
Martinazzoli, in Moro “rientra in un disegno politico-istituzionale nel
quale il sistema parlamentare è assunto come chiave di volta
dell’evoluzione democratica del paese” . Se indubbiamente il Moro “politico”, nel
senso di uomo delle istituzioni, ha lasciato un ricordo indelebile nella
storia italiana del ‘900, certamente il Moro “uomo di pensiero” ha fatto
sì che in lui si potessero coniugare mirabilmente l’impegno e la
passione politica con quella idea di mediazione culturale di cui ha
parlato Martinazzoli. Solo così il politico, cogliendo e interpretando
correttamente i mutamenti storici, può apprestare gli strumenti
politico-istituzionali per guidarli.
La constatazione che, parlando di Moro,
spesso si fa delle sue intuizione rimaste tali perché non adeguatamente
comprese dalla classe dirigente, accresce la peculiarità e
l’eccezionalità della sua figura che resta quella di un
intellettuale che fa politica”. In Moro si realizza una perfetta sintesi
tra azione e riflessione: “non c’è testo, discorso o intervento, in cui
i fatti della politica e le vicende storiche non diventino per lui gli
elementi di un’analisi razionale, giudicati sotto il profilo delle
implicazioni e delle conseguenze, osservati in un quadro più ampio per
rivelare significati ulteriori e per trarne ispirazione in vista di
scelte coerenti. Si percepisce in tutti gli scritti di Moro la tensione
ad andare oltre la superficie delle cose, per coglierne i movimenti
profondi, i lievi annunci, le intenzioni anche appena
aleggiate”(M.Martinazzoli). Sia il Moro politico, sia il Moro
istituzionale trovano riferimento, spesso viene sottaciuto, in un altro
Moro, senza il quale la specificità morotea di coniugare azione e
riflessione non avrebbe avuto la profondità e l’acutezza che invece ne
hanno caratterizzato il percorso politico-istituzionale e umano. Mi riferisco al Moro pensatore, al Moro
docente universitario, in particolare al Moro docente di Filosofia del
diritto, esperienza che è alla base della sua complessa personalità. La
filosofia del diritto è materia, apparentemente lontana da quell’ambito
penalistico nel quale si collocavano gli interessi prevalenti del
giovane docente, ma è indicativa dell’attenzione che già allora egli
riservava ai problemi della politica, dello Stato e della necessità di
coniugare diritto e morale.
Nel giovane Moro si realizza, infatti,
una perfetta complementarietà di diritto-politica e morale in quanto le
categorie della giuridicità e della politica sono, ed è qui che si sente
maggiormente la lezione di Giuseppe Capograssi, espressione della vita
etica e cioè di quel processo attraverso il quale “il soggetto realizza
la sua vita più vera, ascendendo dal piano della sua particolarità
empirica a quello della universalità, che rappresenta il suo valore
propriamente umano … l’eticità è in ogni caso slancio spontaneo della
persona che, superando le angustie del suo limite particolare, spazia
nell’universale”(A.Moro). La vicenda umana e personale di Aldo Moro
si lega mirabilmente al suo percorso e al suo travaglio filosofico. In
poche figure, come in Moro, c’è una perfetta coincidenza di vita e di
filosofia. La sua vita, e soprattutto la sua tragica fine, lo
dimostrano. Quando dal “carcere” delle BR Moro
rivendica la centralità dell’individuo rispetto allo Stato, non pensa
mediocremente alla sua vita da salvare. Quel grido non è l’egoistica
rivendicazione di un potente che chiede per sé una eclatante eccezione
alla cinica legge della ragion di Stato.
E’ il grido disperato di chi, di fronte
alla fredda logica del “diritto del potere”, contrappone, come fece
Antigone di fronte a Creonte, il “potere del diritto”, l’idea, cioè, che
lo Stato ha il suo valore nella difesa della vita umana e che lo Stato
non può mai sacrificare la vita di un uomo, tanto più se si tratta della
vita di un innocente. Si tratta di un grido disperato, però,
perché Moro sa bene come andrà finire …
Lo sa da quando, giovane docente,
scriveva: “Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica di cui
noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali
esigenze: la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca
forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che
gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato
in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non
sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo
dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita,
troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza
sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova
di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è
tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno.
E’ un dolore che non si placa, se non un
poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato
nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura
dissolvono quell’ansia e ridonino la pace.
Forse il destino dell’uomo non è di
realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della
giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”. Il nostro paese necessita, lo si sostiene
da più parti, di una seria e profonda riflessione sulla sua storia. In
particolare di quella parte della sua storia che si collega al movimento
cattolico, alla presenza politica dei cattolici-democratici e alla DC.
Dovrebbero essere avviate serie iniziative storiografiche soprattutto
per cercare di capire come è stato possibile che il sistema di potere
costruito dalla DC sia degenerato e trasfigurato nella corruzione.
Ci si deve chiedere quando è cominciata
la fine di quella che qualcuno, forse impropriamente, definisce la prima
repubblica. Se si vuole veramente ripensare la storia
di questo paese dobbiamo partire da quei giorni, riconsiderare
l’atteggiamento dello Stato, e della DC in particolare, nelle concitate
fasi del rapimento di Moro.
Non dobbiamo rinchiuderci nella acritica
affermazione che non c’era via di uscita e che non si poteva scendere a
compromessi con i brigatisti. Occorre, invece, riconoscere che l’aver
consentito che Moro, un uomo, pagasse quel prezzo, che la logica del
potere prevalesse su quella del diritto, è stato un altro forte scossone
alle fondamenta umane e cristiane del nostro paese. Da allora non poteva essere tutto come
prima, non è stato tutto come prima.
La degenerazione inizia da quel momento
in un vortice che ancora fa sentire i suoi effetti. ...