Il 9 maggio 1978 moriva Aldo Moro, il leader della democrazia Cristiana ucciso dalle Brigate Rosse
  dopo il suo sequestro del 16 marzo 1978.

Ricorre così il 34 ° anniversario della scomparsa del prestigioso leader della Democrazia Cristiana.


Per ricordalo in tale ricorrenza dolorosa, segnaliamo non già uno dei suoi memorabili discorsi politici che hanno segnato una intera epoca del l’Italia, ma un compendio straordinario di “Istituzioni di diritto e Procedura Penale",  lezioni pubblicate nell’aprile 2005 raccolte e curate dal suo allievo Francesco Tritto

Conoscevo Franco Tritto, come lo chiamavano gli amici, e lo ricordo per il suo tratto umano di persona serena e allo stesso tempo appassionata.

Francesco Tritto è venuto a mancare prematuramente nell’agosto 2005.  Egli era giurista, scrittore e professore presso
Università degli Studi di Roma La Sapienza e l'Università degli Studi di Cassino.  È succeduto ad Aldo Moro alla Cattedra universitaria di Istituzioni di Diritto e Procedura Penale alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza.

Il 9 maggio 1978 ricevette la telefonata dei brigatisti  (ascolta la telefonata )che annunciavano la morte di Aldo Moro] ed il luogo del ritrovamento del corpo

Nel 2006 è stato pubblicato il volume “Itinerari di cultura giuridica e politica” in omaggio a Francesco Tritto, curato da Mario Sirimarco.


Franco Petramala


Tra l'amore e il dolore. Introduzione alla filosofia giuridica di Aldo Moro


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Brevi note tratte da un lavoro di Mario Sirimarco, ancora in fase di preparazione,    ispirato dalla frequentazione con Franco Tritto.

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Il modo migliore per ricordare Aldo Moro, per non seguire i rituali commemorativi che si ripetono ogni 9 maggio e che hanno come unico scopo il tentativo di accaparrarsi un’eredità culturale, penso sia quello di cercare di studiarlo, perché Moro, prima di tutto, fu un grande pensatore.
Nella ricca introduzione alla raccolta dei discorsi e degli interventi parlamentari di Aldo Moro, Mino Martinazzoli ha scritto che “la mediazione politica presuppone e coinvolge una mediazione culturale, un pensiero, un confronto di idee, un’attenzione riflessiva a ciò che manifesta il corso della storia. E’ inconcepibile svincolare l’impegno politico da questo sforzo di razionalità pratica.

Senza intelligenza storica la politica è condannata a dipendere dai fatti, limitandosi a registrarli o, peggio, a subirli, anziché aspirare a governarli”. Solo per inciso è il caso di puntualizzare che la vocazione alla mediazione nel Moro politico è l’opposto di una scelta tattica.

Si tratta di un tema molto controverso legato all’idea di un Moro temporeggiatore e consociativistico che spesso viene equivocato. La mediazione, come giustamente puntualizza Martinazzoli, in Moro “rientra in un disegno politico-istituzionale nel quale il sistema parlamentare è assunto come chiave di volta dell’evoluzione democratica del paese” .
Se indubbiamente il Moro “politico”, nel senso di uomo delle istituzioni, ha lasciato un ricordo indelebile nella storia italiana del ‘900, certamente il Moro “uomo di pensiero” ha fatto sì che in lui si potessero coniugare mirabilmente l’impegno e la passione politica con quella idea di mediazione culturale di cui ha parlato Martinazzoli. Solo così il politico, cogliendo e interpretando correttamente i mutamenti storici, può apprestare gli strumenti politico-istituzionali per guidarli.

La constatazione che, parlando di Moro, spesso si fa delle sue intuizione rimaste tali perché non adeguatamente comprese dalla classe dirigente, accresce la peculiarità e l’eccezionalità della sua figura che resta quella di  un intellettuale che fa politica”.
In Moro si realizza una perfetta sintesi tra azione e riflessione: “non c’è testo, discorso o intervento, in cui i fatti della politica e le vicende storiche non diventino per lui gli elementi di un’analisi razionale, giudicati sotto il profilo delle implicazioni e delle conseguenze, osservati in un quadro più ampio per rivelare significati ulteriori e per trarne ispirazione in vista di scelte coerenti. Si percepisce in tutti gli scritti di Moro la tensione ad andare oltre la superficie delle cose, per coglierne i movimenti profondi, i lievi annunci, le intenzioni anche appena aleggiate”(M.Martinazzoli).
Sia il Moro politico, sia il Moro istituzionale trovano riferimento, spesso viene sottaciuto, in un altro Moro, senza il quale la specificità morotea di coniugare azione e riflessione non avrebbe avuto la profondità e l’acutezza che invece ne hanno caratterizzato il percorso politico-istituzionale e umano.
Mi riferisco al Moro pensatore, al Moro docente universitario, in particolare al Moro docente di Filosofia del diritto, esperienza che è alla base della sua complessa personalità. La filosofia del diritto è materia, apparentemente lontana da quell’ambito penalistico nel quale si collocavano gli interessi prevalenti del giovane docente, ma è indicativa dell’attenzione che già allora egli riservava ai problemi della politica, dello Stato e della necessità di coniugare diritto e morale.

Nel giovane Moro si realizza, infatti, una perfetta complementarietà di diritto-politica e morale in quanto le categorie della giuridicità e della politica sono, ed è qui che si sente maggiormente la lezione di Giuseppe Capograssi, espressione della vita etica e cioè di quel processo attraverso il quale “il soggetto realizza la sua vita più vera, ascendendo dal piano della sua particolarità empirica a quello della universalità, che rappresenta il suo valore propriamente umano … l’eticità è in ogni caso slancio spontaneo della persona che, superando le angustie del suo limite particolare, spazia nell’universale”(A.Moro).
La vicenda umana e personale di Aldo Moro si lega mirabilmente al suo percorso e al suo travaglio filosofico. In poche figure, come in Moro, c’è una perfetta coincidenza di vita e di filosofia. La sua vita, e soprattutto la sua tragica fine, lo dimostrano.
Quando dal “carcere” delle BR Moro rivendica la centralità dell’individuo rispetto allo Stato, non pensa mediocremente alla sua vita da salvare. Quel grido non è l’egoistica rivendicazione di un potente che chiede per sé una eclatante eccezione alla cinica legge della ragion di Stato.

E’ il grido disperato di chi, di fronte alla fredda logica del “diritto del potere”, contrappone, come fece Antigone di fronte a Creonte, il “potere del diritto”, l’idea, cioè, che lo Stato ha il suo valore nella difesa della vita umana e che lo Stato non può mai sacrificare la vita di un uomo, tanto più se si tratta della vita di un innocente.
Si tratta di un grido disperato, però, perché Moro sa bene come andrà finire …

Lo sa da quando, giovane docente, scriveva: “Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze: la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno.

E’ un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvono quell’ansia e ridonino la pace.

Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”.
Il nostro paese necessita, lo si sostiene da più parti, di una seria e profonda riflessione sulla sua storia. In particolare di quella parte della sua storia che si collega al movimento cattolico, alla presenza politica dei cattolici-democratici e alla DC. Dovrebbero essere avviate serie iniziative storiografiche soprattutto per cercare di capire come è stato possibile che il sistema di potere costruito dalla DC sia degenerato e trasfigurato nella corruzione.

Ci si deve chiedere quando è cominciata la fine di quella che qualcuno, forse impropriamente, definisce la prima repubblica.
Se si vuole veramente ripensare la storia di questo paese dobbiamo partire da quei giorni, riconsiderare l’atteggiamento dello Stato, e della DC in particolare, nelle concitate fasi del rapimento di Moro.

Non dobbiamo rinchiuderci nella acritica affermazione che non c’era via di uscita e che non si poteva scendere a compromessi con i brigatisti. Occorre, invece, riconoscere che l’aver consentito che Moro, un uomo, pagasse quel prezzo, che la logica del potere prevalesse su quella del diritto, è stato un altro forte scossone alle fondamenta umane e cristiane del nostro paese.
Da allora non poteva essere tutto come prima, non è stato tutto come prima.

La degenerazione inizia da quel momento in un vortice che ancora fa sentire i suoi effetti. ...

Mario Sirimarco