La Cattiveria

il Fondino del 06 Luglio 2012

La cattiveria 

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Spesso faccio fatica a ricordare immediatamente la parola “canaglia”; ne associo il significato a giudizi appropriati ma faccio fatica a ricordarla, probabilmente perché mi si sovrappone al linguaggio di Victor Hugo, rendendola desueta.

Succede. Sono invece, frequentemente, attratto dalla parola cattivo, cattiveria, altra parola che non si usa spesso ma che mi sovviene immediatamente.

Come mi facevano rilevare sono i bambini che la usano con maggiore frequenza ed appropriatezza; viene usata anche dai calciatori quando lamentano una prestazione scarsa perché non avrebbero giocato con la necessaria “cattiveria”; questa volta la parola indica una virtù. Né è come con l’uso della parola “mafiosa” riferita ad una bella ragazza, fino a 50 anni fa in Sicilia. Oggi il termine è usato unicamente per definire ben altro !

L’appropriatezza del vocabolo cattiveria è quello attribuita dai bambini.

Si sostiene sulla rivista “primo amore” che “i singoli, come le società, sono disposti a riconoscere dentro di sé la presenza della crudeltà, della violenza, e a dare ad esse una valenza «naturale» e positiva nello sviluppo della vita, aiutati in questo dalle scienze, dalla filosofia, dalla letteratura, dalla psicanalisi, dalle teorie economiche, politiche e sociali, dall’etologia ecc… Sono molto meno disposti a riconoscere la presenza dentro di sé di certe piccole, impresentabili inclinazioni cui sono stati dati nomi più infantili e meno culturalmente protetti, come è appunto quello di «cattiveria».

È vero: è vero anche che alcune esasperati comportamenti o giochi della mente che sottendono sofferenza acuta, assumevano una dimensione più equilibrata nel contesto  delle idee dominanti e cioè delle ideologie.

Negli ultimi decenni lo spunto individualistico alla ricerca della dimensione della unicità, porta all’isolamento inducendo il sentimento della paura e della insicurezza che striscia dentro di noi e poi ammorba i comportamenti, li deforma e li sostiene con la utilizzazione del massimo dell’egoismo del quale è fatta la cattiveria; strumento e motivazione oscena per spostare la soglia della pietas, per mantenere ambiti di apparente sicurezza a fatica conquistati..

L’etimologia della parola cattivo, cattiveria, è sicuramente dal latino “captivus” cioè prigioniero, che nella lingua cristiana si arricchisce della specificazione “diaboli”, captivus diaboli, «prigioniero del diavolo” e quindi malvagio.

Quelle  piccole impresentabili inclinazioni stanno diventando costume e metodo delle relazioni. Si osservano rendite elettorali e fortune politiche fondate sull’uso della cattiveria, sullo sparlare e sullo scandalizzare in segno di sfida, con la copertura di campagne mediatiche denigratorie e ben orchestrate.

Vecchie regole se non eterne, si dirà, prevedono da sempre che il successo richiami il cinismo e la relazione grossolanamente machiavelliana fra mezzi e fini.

Ovunque è esasperazione, invidia, risentimento, livore, paura. Sentimenti che richiamano la cattiveria che, a sua volta, asserve chiunque per gli effetti della cattiveria e per la minaccia insita nel mostrarsi della cattiveria.

Non si ha la giustificazione di alcun pensiero etico, per quanto barbaro e violento e inumano possa essere.

Rimane la profonda amarezza che il sacrificio di un popolo si debba far passare come un dovere morale e quindi etico in un contesto di cattiveria.

E poichè il cattivo alla lunga si fa prigioniero della sua stessa inumanità, chiunque si trovi a sopraffare gli altri, sopraffà se stesso. Costruisce una gabbia attorno a sé.

Il che equivale ad una condizione umana individuale e collettiva senza speranza.

 

Franco Petramala