Big Data: come si fa Business con le nostre informazioni!

Big Data: come si fa Business con le nostre informazioni!

Trasudiamo dati. Le azioni quotidiane di ciascuno di noi - spostarsi, comunicare, interagire - generano un flusso continuo di informazioni, simile alle microscopiche gocce d’acqua che disperdiamo con la traspirazione.

Soltanto che nel caso dei dati, da qualche anno, c’è qualcuno che si preoccupa di raccoglierli, questi microscopici pezzi di informazione, conservarli, organizzarli e renderli utili. In alcuni casi perfino venderli.

È un fenomeno noto come Big Data: enormi quantità di dati generati da ciascuno di noi in modo inconsapevole possono oggi essere raccolti e resi disponibili grazie a internet e ai dispositivi mobili (smartphone e tablet per esempio). Allo stesso tempo sofisticatissimi software consentono a grandi organizzazioni  pubbliche o private di analizzarli ricavandone informazioni preziose. Ogni volta che ci muoviamo con il telefonino acceso, navighiamo in rete, paghiamo con carta di credito, c’è una compagnia telefonica, una banca, un motore di ricerca o anche un’organizzazione pubblica (l’Agenzia delle Entrate, la polizia) che acquisisce informazioni su di noi.

Facciamo un esempio: domenica ho preso la macchina e sono andato allo stadio. Ho portato con me il mio cellulare. Ecco, senza che io me ne renda conto il segnale del mio telefono  è stato intercettato da una serie di celle radio. Adesso c’è una compagnia telefonica che sa che io mi sono spostato da casa mia allo stadio. I dati sono lì disponibili. Allo stadio con me c’erano circa 5000 persone (eh sì la squadra per cui faccio il tifo non ha un gran seguito di pubblico), più o meno tutti con telefono cellulare. Ora, c’è una compagnia telefonica che può tracciare con una certa precisione gli spostamenti di 5000 persone la domenica pomeriggio. Supponiamo che questa azienda telefonica decida di vendere queste informazioni al comune in cui si trova lo stadio: sarebbe una risorsa preziosa per programmare e gestire meglio il traffico. Se poi la squadra in questione non è la mia povera squadra di provincia, ma l’Inter o il Milan e il comune in questione è quello di Milano, il valore di queste informazioni è ancora più evidente.

Ma c’è di più: supponiamo che i telefonini in questione fossero smartphone i cui proprietari hanno un account su un social network. Se la compagnia telefonica e la società proprietaria del social network accettano di scambiarsi immediatamente la quantità di informazioni a disposizione di entrambi esplode. Supponiamo, ancora, che un’azienda produttrice di beni di consumo, ad esempio di abbigliamento, voglia capire le abitudini di una certa fascia di popolazione, ad esempio le giovani donne. Può selezionare le persone con le caratteristiche desiderate fra i membri di un social network (e già lì le informazioni disponibili sono in quantità enormi) e analizzare i loro movimenti grazie ai dati resi disponibili dalle compagnie telefoniche. Potrebbe scoprire quanto di frequente vanno in un centro commerciale, se la domenica vanno al mare, quanto spesso viaggiano o visitano un outlet village ecc.

E lo stesso potrebbe fare un partito politico: i nostri potenziali elettori si spostano quotidianamente per lavoro? La domenica vanno a messa? Hanno una squadra del cuore?

In effetti società come Google o Facebook realizzano ricavi anche così: analizzano e vendono i nostri dati (in forma aggregata certo, non nominale) a privati che li usano con finalità di marketing o comunicazione.

L’analisi di Big Data offre possibilità sconfinate a chi ha accesso ai giganteschi database dei motori di ricerca o dei social network. E non sono solo le società in questione a poterne usufruire. Lo scandalo Data Gate dimostra che le agenzie pubbliche che si occupano di sicurezza nazionale hanno già messo le mani su queste informazioni e le utilizzano sistematicamente.

E il fenomeno è solo all’inizio. Già si parla di grandi marchi dell’abbigliamento sportivo che intendo inserire dei dispositivi per la trasmissione di dati nei loro prodotti. Immaginate delle scarpe che comunichino continuamente al loro produttore dove siete e a che velocità vi muovete. E lo stesso stanno facendo i produttori di automobili. E perché non inserire oggetti simili nelle tessere sanitarie?

Attualmente l’unità di misura utilizzata per esprimere la quantità di dati trattata dalle aziende del web è lo Yottabyte, pari a 10 alla 24 byte. Ma ci si aspetta di arrivare presto ai Brontobyte, pari a 10 alla 27 byte.

Le questioni problematiche sollevate dal fenomeno dei Big Data sono numerose. È vero che questi dati potrebbero essere utilizzati solo in forma aggregata e non per tracciare il comportamento di un individuo. Ma visto che è tecnicamente possibile, siamo sicuri che qualcuno non cederà (o abbia già ceduto) alla tentazione di mettere centinaia di migliaia di singole persone sotto osservazione?

Anche per via dell’inquietante assonanza il paragone fra Big Data e Big Brother (Grande Fratello) è naturale.

Mentre organizzazioni come Google sono in grado di controllare ciascuno di noi, la loro dimensione globale le sottrae spesso al controllo degli stati e, quindi, dei cittadini. Come possiamo evitare il rischio che queste organizzazioni approfittino della loro posizione di forza? Il titolo di un bel libro di Amado era “I padroni della terra”. Come possiamo evitare che si affermino “I padroni dei dati”?

D’altro canto non bisogna sottovalutare le potenzialità positive di questa tecnologia: immaginate come l’analisi dei nostri comportamenti potrebbe facilitare la soluzione di problemi come il traffico e l’inquinamento o aiutarci a scoprire le cause comportamentali di molte malattie.

La tecnologia è già qui, disponibile, utilizzabile e utilizzata. Ora c’è bisogno che cittadini e istituzioni ne prendano consapevolezza. È necessario che si rifletta sulle misure che consentano di sfruttarne le potenzialità riducendone i rischi.

 

Vincenzo Corvello