La Tecnica e l’Uomo

La Tecnica e l’Uomo

Prefazione di Franco Petramala

Il giovane studioso Alessandro Urso, nel suo saggio di sintesi del pensiero di Martin Heidegger, fa alcune osservazioni molto interessanti.

A) “La “sproporzionata” disponibilità di screening diagnostici, rispetto alle effettive  possibilità terapeutiche, ci pongono costantemente davanti agli esiti di un potere di manipolazione dalle derive, evidentemente, ancora troppo poco prevedibili”, realizzando ciò un sistema di attesa che garantisce e assoggetta contemporaneamente l’individuo ad una tecnica che in parte c’è ed in parte è da attendere e quindi rinnova costantemente l’assoggettamento.

B) Non c’è dubbio che lo sviluppo socio-economico, abbinato alla crescita potenziale delle biotecnologie abbiano contribuito, soprattutto nei paesi occidentali, all’affermarsi di una visione altamente edonistica e salutista del corpo umano, dove proprio ottimizzazione e perfezionamento rappresentano  termini adeguati a definire l’incidenza sempre più invasiva della tecnologia. “La tecnica moderna, nella sua forma planetaria e impositiva è per Heidegger completamente indomabile da una qualsiasi forma politica, la stessa democrazia appare inadeguata poiché la razionalità tecnica riduce il principio di autorità della politica, condizionata oramai dal controllo e dai programmi guida della tecnica, e ridotta in quanto tale, a mera propaganda “asservita” ai suoi interessi.

C) In un orizzonte così determinato «nessun Führer può più illudersi di guidare le sorti del mondo, senza obbedire egli stesso per primo agli imperativi del comando che guidano l’assalto tecnico. Nessun Führer, ma anche nessun moderno sistema politico-normativo sarebbe in grado di sottrarsi all’imperialismo della tecnica”. Il mondo moderno è cioè dominato da due sistemi ad influenza planetaria, quello della tecnica e quello delle dinamiche sistemiche della finanza, che escludono la politica dal livello decisionale e di discernimento complessivo e decidente.

D) “L’insegnamento che riceviamo da Heidegger, attraverso una lettura attenta dei suoi scritti è un invito al superamento che non annulla la tecnica, ma che ci chiede, soltanto, di pensare e agire in modo diverso; la tecnica per quanto necessaria non esaurisce la domanda fondamentale sul senso”.

Trasgressivo di ogni forma di metodo immaginare o analizzare un ipotetico percorso. La imponderabilità delle vicende umane potrebbe creare un clima di speranza ma di attesa inusitata e in fin dei conti vana.

E’ probabile che la riscoperta della “umanità” dell’uomo come caratteristica della fisis ( φύσις ) possa e debba sostenere la ricerca del senso esistenziale dell’uomo.

La conclusione a cui giunge Alessandro Urso è più o meno questa e offre spunti di riflessione su temi della tecnica, sulla politica sul senso della esistenza umana e del suo misterioso percorso.   

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La Tecnica e l’Uomo

L’analisi di Martin Heidegger sulla tecnica, tema in questione nelle diverse conferenze che segnarono la sua “svolta” a partire dagli anni trenta, e particolarmente nella celebre conferenza di Monaco del 1953 dal titolo: Die Frage nach der Technik, rappresenta senza dubbio una delle pietre miliari della filosofia del novecento ed un punto di riferimento essenziale per comprendere non soltanto un fenomeno che investe in pieno l’esistenza umana, sempre di più “ingabbiata” all’interno di rigide dinamiche funzionali, ma anche il portato filosofico degli attuali sviluppi della tecnica in ambito biologico e genetico in relazione alle radicali trasformazioni introdotte dalle odierne biotecnologie. Il rapido progresso tecnologico che ha caratterizzato la medicina moderna rischia, infatti, di investire in pieno il valore e il significato che l’uomo ha da sempre riconosciuto a sé stesso e alla sua immagine impressa in una corporeità quale datità biologica indisponibile. Questa nuova immagine del sé trova oggi nel corpo perfetto e potenziato la sua massima manifestazione raggiungibile. Ottimizzazione e perfezionamento riaffiorano quali terminologie più appropriate a giustificare l’incidenza sempre più invasiva della tecnologia sul corpo, ma non solo. Il paradigma contemporaneo in materia di assistenza tecnologica alla procreazione umana, oggi sempre di più definibile in termini di riprogenetica, (genetica applicata alla riproduzione umana), non può non alimentare un dibattito altamente controverso sul piano bioetico.

Per il pensatore della Foresta Nera, il fenomeno della tecnica rappresenta il proprium del mondo moderno, l’essenza totalitaria del nostro tempo al culmine dello sviluppo della metafisica occidentale. Quella metafisica che, già da Platone in avanti, ha intrapreso un nuovo cammino nel segno dell’ oblio dell’essere per l’esclusiva considerazione dell’ente, che troverà, secondo Heidegger, nel cogito Cartesiano l’inizio decisivo di quel razionalismo moderno che segna l’inesorabile declino del pensiero come filosofia, verso nuova determinazione della verità dell’ente che riposa non più nell’essere, di cui non resta più nulla, ma nella soggettività dell’uomo, posto come fondamento storico assoluto nell’età moderna. Con Cartesio, infatti, l’essere delle cose dipende dalla certezza rappresentativa di quel subiectum che inizia, proprio in questo modo ad esercitare il suo dominio irrefrenabile sulla natura. Dominio che si compie proprio nella tecnica moderna, per la quale il mondo è ridotto a «fondo», riserva disponibile all’uso per l’uomo e per i suoi scopi. Bestand è , infatti,  il «termine-chiave», dirà Heidegger, che caratterizza il modo di presentarsi dell’ente come “fondo”, la modalità attuale di disvelamento dell’essere storico in quanto risorsa immagazzinabile e manipolabile dai programmi della stessa tecnica moderna. È per questa ragione che il filosofo di Messkirch riterrà insufficiente, per quanto corretta, la comune rappresentazione antropologico-strumentale della tecnica come instrumentum, mezzo e dispositivo al servizio dell’uomo, poiché essa non basta a mostrarne la sua reale essenza. La concezione strumentale è per Heidegger «caduca per principio», poiché la tecnica moderna non è solo strumento al servizio dell’uomo per il raggiungimento di fini prefissati, ma è  visione del mondo, orizzonte di significati, ed in quanto visione stabilisce la forma del mondo nella modalità dell’impiego, dove le cose, ridotte a risorsa, acquistano proprio quel significato che la tecnica gli assegna nell’ottica dei suoi fini progettati. Heidegger ha messo chiaramente in luce il carattere matematico del pensiero moderno. Non si tratta soltanto di prevedere con un calcolo sapiente il sistema delle azioni e reazioni future, bensì, di determinare attivamente la natura secondo un progetto. Progettare significa, in questo senso, organizzare il mondo in termini di rigoroso calcolo matematico e di obiettivi da raggiungere.

«L’uomo cammina sull’orlo estremo del precipizio»[1], avverte Heidegger, proprio quando arrivi a percepire persino se stesso come Bestand, materiale umano disponibile, nuda vita pienamente integrabile nel progetto manipolante e assicurativo della tecnica moderna, che, nella forma globale dell’impianto (Ge-stell), così il filosofo definisce l’intera struttura provocante della tecnica moderna, rischia di cancellare definitivamente l’essenza più autenticamente umana, quella di esser-ci votato all’ascolto di una verità più originaria. Calcolo e pianificazione sono, infatti, le modalità “tecniche” con cui ordinare il tutto nella forma della risorsa da usurare e destinare alla produzione incondizionata, «ivi compresa la materia prima uomo». Non ci si dovrà stupire se, avvertiva Heidegger, «sulla base delle attuali ricerche della chimica, un giorno si possano creare fabbriche per la produzione artificiale di materiale umano»[2]. Tale dirigismo in materia di fecondazione è, infatti, strettamente connesso all’esigenza di materiale umano da impiegare nell’apparato tecnico, alla cui base agisce quel principio d’efficienza, che annulla ogni differenza costitutiva del mondo divenuto ormai un «non-mondo», per assicurare la logica e incondizionata consumazione dell’essente, compreso la vita. E allora, non c’è più spazio per ciò che è sacro, intangibile, laddove tutto viene spianato sulla piattaforma come un prodotto mercificato del lavoro e della produzione. Il pensare, il poetare, l’arte creativa ridotta a tecnica, nulla più, ormai, è in grado di portare in luce il senso, ma ogni cosa diviene prodotto di una produzione infinita, anche la vita non si sottrae al rischio di una produzione totale. «Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà - tuonava Heidegger agli inizi degli anni cinquanta quando la “rivoluzione biologica”[3] muoveva i primi passi grazie alla scoperta della struttura molecolare del DNA ad opera di Watson e Crick, che diede inizio alla genetica sperimentale -  l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso, cioè la sua essenza come soggettività»[4].

D’altronde  la disponibilità sempre crescente di interventi tecnici sull’organismo umano del tutto impensabili qualche decennio fa, ha profondamente rivoluzionato il rapporto con alcune esperienze simboliche della vita, il generare e la nascita così come il morire, sempre più “insistentemente” sottratti al loro originario divenire naturale, per essere assoggettate ad una dinamica di controllo tecnico tipicamente moderna. Le straordinarie potenzialità dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie, la “sproporzionata” disponibilità di screening diagnostici, rispetto alle effettive  possibilità terapeutiche, ci pongono costantemente davanti agli esiti di un potere di manipolazione dalle derive, evidentemente, ancora troppo poco prevedibili. La possibilità di intervenire direttamente sul patrimonio genetico influenzando l’intero processo generativo dischiude gli scenari di quella che, senza dubbi, rappresenta la più profonda rivoluzione antropologica della storia, poiché investe le radici più intime dell’identità umana e dell’intera sua specie. Si è obbligati, pertanto, a non escludere l’ipotesi che tali sviluppi tecnologici, a lungo termine, possano condurre ad una riforma radicale capace di investire e pianificare addirittura i caratteri genetici della specie, fino a sovvertire il fatalismo della nascita in una nascita “opzionale”, in ordine a quella esasperata ricerca della perfezione nel nascituro mediante il ricorso a diagnosi selettive di massa in fase prenatale o reimpianto. Non c’è dubbio che lo sviluppo socio-economico, abbinato alla crescita potenziale delle biotecnologie abbiano contribuito, soprattutto nei paesi occidentali, all’affermarsi di una visione altamente edonistica e salutista del corpo umano, dove proprio ottimizzazione e perfezionamento rappresentano  termini adeguati a definire l’incidenza sempre più invasiva della tecnologia. Non a caso uno degli aspetti decisivi dell’ingegneria genetica, come per la tecnica moderna secondo l’analisi di Heidegger, consiste proprio nell’eliminare ogni elemento di imprevedibilità e provvisorietà. In un’ottica così prevalente ci si chiede se la vita stessa possa essere pensata non come un presupposto in sé, ma come un prodotto disponibile.

Il pericolo, allora, è nell’essenza della tecnica che nell’epoca moderna porta l’uomo sulla via di quel disvelamento provocante mediante il quale il reale si manifesta come fondo (Bestand), come mera materia manipolabile. Mentre la techné antica era determinata dalla necessità della natura, limite invalicabile alla prâxis umana, la provocazione della tecnica moderna trascende la potenza originaria della natura. Essa  pretende che «fornisca energia che possa come tale essere estratta (Herausgefördert) e accumulata»[5], per cui, «non è più in ordine all’essere e allo svelarsi della physis, ma è in ordine all’avere e al poter disporre del potenziale energetico che vale non in quanto è (Stand) ma in quanto è a disposizione (Bestand[6]. La disponibilità e l’assicurazione delle risorse, ivi compreso, lo ribadiamo, la risorsa più importante, la vita umana, è infatti il principio su cui si fonda il pensiero moderno, il modo in cui la realtà stessa si manifesta. In questo senso la tecnica è la verità della nostra epoca, il suo destino, nel modo in cui l’uomo si rapporta nella forma del dominio e del controllo affinché tutto sia conforme ai suoi progetti.  Ciò che è veramente inquietante per Heidegger, non è rappresentato dalle macchine e dagli apparati tecnici, bensì dal dominio dell’imposizione assoluta, che trasforma radicalmente il mondo, e a cui l’uomo non è sufficientemente preparato. Lo sviluppo della tecnica moderna ha infatti abolito quella prospettiva antropocentrica nella quale era ancora l’uomo ad esercitare il suo potere sulla natura. Ciò, di conseguenza avrebbe vanificato, secondo una tesi cara al filosofo Umberto Galimberti, quella speranza riposta in una etica della responsabilità sul modello umanistico proposto da Hans Jonas, in grado di esercitare un controllo  sulla tecnica, diventata ormai completamente “autonoma” rispetto alla volontà umana. A tal proposito, nella nota  intervista con lo «Spiegel», Heidegger ammetteva la difficoltà di individuare un sistema politico adeguato al dominio planetario della tecnica moderna che non sia anch’esso dominato dalla concezione strumentale e neutrale della tecnica come strumento governabile dall’uomo. La tecnica moderna, nella sua forma planetaria e impositiva è per Heidegger completamente indomabile da una qualsiasi forma politica, la stessa democrazia appare inadeguata poiché la razionalità tecnica riduce il principio di autorità della politica, condizionata oramai dal controllo e dai programmi guida della tecnica, e ridotta in quanto tale, a mera propaganda “asservita” ai suoi interessi. In un orizzonte così determinato «nessun Führer può più illudersi di guidare le sorti del mondo, senza obbedire egli stesso per primo agli imperativi del comando che guidano l’assalto tecnico»[7]. Nessun Führer, ma anche nessun moderno sistema politico-normativo sarebbe in grado di sottrarsi all’imperialismo della tecnica, che pertanto, nella sua dimensione planetaria crea inevitabilmente «seri dubbi sulla possibilità, nelle società tecnicizzate, dell’esistenza della democrazia»[8]. Le stesse frontiere aperte oggi dalle biotecnologie non rappresentano più il regno della biopolitica, nella sua antica pretesa di controllare e gestire tutti gli aspetti della vita, sia esistenziale che biologica. Tutto questo apparato, che ha visto proprio nell’eugenetica nazista la sua massima espressione, rappresenta oggi soltanto il residuo di un vecchio potere ormai completamente superato da una nuova forma di imposizione (Gestell), un nuovo potere che traduce, questa volta, in termini economici e di mercato ogni aspetto della vita umana.

È sul tema dell’impensabilità della tecnica, che Heidegger insiste. «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre di più dalla terra»[9]. Operando nella completa assenza di senso, dominato dalla razionalità tecnica e dal suo inarrestabile processo di potenziamento e perfezionamento sulla via tracciata dall’imperativo tecnico si può quindi si deve, l’uomo agirebbe nella completa insensatezza imposta dall’apparato e dal suo carattere afinalistico che impone di produrre tutto ciò che è producibile per il solo fatto che è producibile. Il pericolo allora, per Heidegger, è che l’uomo, nel  ruolo di funzionario che egli assume inevitabilmente nell’apparato, senza scopi ulteriori se non quelli imposti dall’accrescimento tecnico, sia estraniato dalla possibilità di percorrere un cammino alternativo che solo un pensiero meditante può dischiudere. La tecnica «non pensa», spinta dalla razionalità calcolante completamente priva di ogni ricerca di senso, agisce in un incessante auto potenziamento che investe l’uomo sradicandolo dalla terra. Il fatto che continuino gli esperimenti nucleari quando la scorta di bombe atomiche è già ampiamente sufficiente alla completa distruzione dell’umanità, così come gli sviluppi dell’ingegneria genetica, orientati minacciosamente ad una messa in crisi di quell’immagine che l’uomo ha di sé nella sua riconoscibilità psicofisica, evidenziano quanto pericolosamente radicata sia la mentalità “autoreferenziale” della tecnica tendente al suo illimitato perfezionamento. Dinanzi al crollo di ogni ideologia politica è la volontà di potenza, nella sua veste “tecnototalitaria”, ad assumere il direttamente il comando, scatenando il proprio dominio totale scevro da ogni limite etico, politico o ideologico? L’aspetto più inquietante è che l’uomo sia completamente  impreparato a questa radicale trasformazione del mondo, avvertiva Heidegger. «Sgomento e inerme, in balia dell’inarrestabile strapotere della tecnica»[10], incapace di dominarla mediante libera volontà, assiste inerme alla distruzione della terra e della vita. Ciò che è inquietante, dunque per il filosofo, non è che il mondo si tecnicizzi, ma che l’uomo non sia sufficientemente preparato a questa trasformazione radicale, e cioè, detto in altri termini, egli non disponga di strumenti critici, di una adeguata meditazione con cui confrontarsi e rapportarsi con gli eventi che caratterizzano la stessa età tecnologica. È l’impreparazione dell’uomo di fronte al Gestell, l’impianto globale con cui il filosofo della Foresta Nera descriverà la provocazione tecnica, il vero pericolo, il suo essere completamente disarmato di fronte al suo potere, incapace a coglierne la reale essenza. Per queste ragioni non occorre ripudiarla, quanto, invece, confrontarla con un pensiero alternativo a quello calcolante della logica tecnico-razionale, e capace di distacco, cioè di tenersi libero da essa pur facendone uso. La tecnica in sé non rappresenta un pericolo, essa è indiscutibilmente un simbolo straordinario dell’intelligenza dell’uomo, così come lo sono le stesse sperimentazioni in ambito genetico; il rischio  vero consiste, invece, nella totale soggezione delle scelte umane a una questione esclusivamente tecnica, in un regime di oblio assoluto del senso. Emerge, qui, un ulteriore e fondamentale limite della concezione antropologico-strumentale della tecnica: come metafisica compiuta  nell’impiegabilità del tutto, nella riduzione dell’uomo a materia prima, è ora la tecnica in quanto Gestell-impianto ad arrogarsi il ruolo di “soggetto provocante”, un tempo carattere indiscusso dell’uomo moderno. «Una potenza più alta dell’uomo-soggetto riprende con imperio la parola»[11]. Non è forse questo il pericolo più grande?

Le riflessioni heideggeriane esprimono, pertanto, il bisogno di una profonda riconversione di pensiero nell’uomo, di una riconfigurazione del suo rapporto con l’essere che riconduca, nello specifico,  la tecnica stessa, dal suo stato di predominio nella forma impositiva del Gestell, ad uno stato di quiete accoglienza alla φύσις, la natura originaria secondo l’accezione presocratica, dove l’uomo possa nuovamente porsi in ascolto dell’essere nel suo disvelamento autentico. L’insegnamento che riceviamo da Heidegger, attraverso una lettura attenta dei suoi scritti è un invito al superamento che non annulla la tecnica, ma che ci chiede, soltanto, di pensare e agire in modo diverso.

La tecnica per quanto necessaria non esaurisce la domanda fondamentale sul senso. Di questo senso deve farsi carico una responsabilità morale, la sola in grado di cogliere quel valore simbolico inscritto alla radice delle esperienze umane più profonde, come il generare e il nascere. È forse questo il compito principale oggi per la bioetica: porsi, in ascolto di ciò che ci è donato, la vita, ancora disposti ad accoglierla come evento e possibilità di senso, dono offerto e, in quanto tale, indisponibile.

Alessandro Urso


[1] M.Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, 20-21
[2] M.Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, op.cit, p.62
[3]Scrive Hediegger: «Le ricerche del chimico Kuhn, a cui quest’anno (1951) la città di Francoforte ha conferito il premio Goethe, aprono già la possibilità di regolare in modo pianificato, secondo i bisogni, la generazione di esseri viventi di sesso maschile o femminile». M.Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, op. cit. p 62
[4] M.Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in Segnavia, Adelphi p 211.
[5] M.Heidegger, La questione della tecnica, op.cit p.11
[6] U.Galimberti, Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2005, p. 398
[7] C.Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in Heidegger e l’ orizzonte della filosofia pratica, Guerini, Milano 2003, p.170.
[8] U.Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2002, p. 450
[9] M.Heidegger, Ormai soltanto un Dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel, Marini, A. (a cura di), Guanda, Parma 1987, p.134
[10] M. Heidegger, Gelassenheit, il melangolo, Genova 2006, p. 36
[11] E.Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981, p. 248