MisasiMario Sidimarco

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Crisi dello stato sociale e principio di sussidiarietà.
Riccardo Misasi e la “Comunità di Comunità”
Di Mario Sirimarco
Pubblicato sulla Rivista “ il Domani d’Italia” n° 4/2001 

 

 

 

1.  Nel 1998, ormai molto lontano dalle vicende politiche che per molti anni lo hanno visto protagonista, Riccardo Misasi pubblica un documentato volume dedicato alla storia del comune di Orvieto[1], come …
La lettura del libro di Riccardo Misasi offre lo spunto per ulteriori riflessioni sul tema della sussidiarietà …[2] 
La prima considerazione da fare è che nel pensiero di Misasi, anche se mi sembra che l’espressione non venga utilizzata (ma anche in Sturzo, che rappresenta una delle matrici del pensiero di Misasi, manca l’uso del termine sussidiarietà), si delinea chiaramente uno “stato della sussidiarietà” come esigenza anche di tipo “spirituale” come ha notato acutamente De Rita nella prefazione al volume[3].  Per uscire dalla crisi sociale e politica dei nostri tempi, che Misasi analizza con grande attenzione alla storia e alla storia del pensiero, mi sembra che la soluzione proposta sia proprio quella del recupero di una dimensione politica capace di esaltare il primato della persona, come soggetto autonomo e responsabile, e delle formazioni sociali, o delle società intermedie, in cui la persona sviluppa se stessa. La sua proposta, come meglio vedremo fra breve, va oltre il federalismo (che è uno dei modi tecnicamente e giuridicamente possibili di attuare la sussidiarietà) perché si avverte nelle pagine misasiane una forte attenzione agli sviluppi della globalizzazione e alla necessità di mettere in discussione sturzianamente i limiti dello Stato-nazione[4].
2. Il tema della sussidiarietà è un tema entrato in modo massiccio nel dibattito politico. Sono tanti i motivi che hanno riproposto questa idea antica: la costruzione dell'Europa come entità politica e non più solo come mercato comune; il disfacimento del comunismo nei paesi dell'est europeo; la crisi dello stato sociale, nella sua versione di stato provvidenza, nei paesi occidentali; la progettazione istituzionale più o meno federalista anche in paesi come il nostro;  la necessità di ripensare la fenomenologia dei rapporti tra lo Stato, gli organismi territoriali e i privati; il fenomeno della info-globalizzazione e della crescente complessità della società e delle sue problematiche economiche ed ambientali.
In gran parte di questo dibattito non si va al di là di una utilizzazione quasi esclusivamente retorica dell'espressione sussidiarietà (di principio di sussidiarietà, stato sussidiario o della sussidiarietà, diritto della sussidiarietà). Come altre espressioni, penso ad esempio a “diritti umani”, anche questa è usata come orpello per rendere più appetibile e presentabile il discorso e la comunicazione politica senza che, da parte di coloro che così agevolmente la maneggiano, ci sia un serio approfondimento sulle sue straordinarie valenze teoretiche ed etiche.
In effetti la storia del principio della sussidiarietà è la constatazione della distanza che corre tra il principio, abbastanza chiaro pur nella paradossalità della sua formulazione teorica, e i tentativi di applicazione, le sue manifestazioni concrete che spesso hanno condotto e conducono a risultati completamente divergenti (penso allo snaturamento del principio avvenuto con l'esempio del corporativismo fascista, ma potrei ricordare la 'mancata' attuazione nella prospettiva della sussidiarietà dell'art. 2 della nostra Costituzione[5], o l'ordinamento giuridico europeo che proclama in ogni occasione il principio, ma poi produce continuamente una normazione invadente e asfissiante).
3. Come è noto, di sussidiarietà possiamo parlare in due significati apparentemente diversi ma in realtà strettamente complementari come la riflessione teoretica si è preoccupata di dimostrare. Significati che, in qualche modo, si ricollegano alla distinzione comunemente accettata nella letteratura giuridica tra una 'sussidiarietà orizzontale', relativa ai rapporti tra pubblici poteri ed autonomie private, e una 'sussidiarietà verticale', relativa, invece, alla organizzazione delle competenze tra enti pubblici e Stato[6].
Sussidiarietà indica, certamente, un principio giuridico in merito alla distribuzione di competenze all’interno di un’organizzazione politica. E il dibattito sul federalismo e sulla costruzione dell’Unione europea ha contribuito alla rinascita di questo modo di intendere il principio. Ma, soprattutto, con sussidiarietà deve intendersi un certo modo di vedere il problema dell’autorità politica, in un percorso, un processo che ha la finalità di conciliare l’autonomia dell’individuo con la necessità dell’autorità, la libertà d’autonomia e d’iniziativa con la prospettiva del bene comune. Quindi il principio della sussidiarietà è l’espressione di una particolare filosofia politica e di una particolare antropologia che esalta l’uomo, la sua libertà e la sua responsabilità, che considera in un certo modo anche i concetti di autorità e di bene comune e che presuppone una visione più articolata e complessa della giuridicità.
Per meglio inquadrare il principio è proprio da questo essenziale aspetto che bisogna partire. Ed è qui che si presenta il carattere paradossale del principio derivante dal suo situarsi sul delicato crinale in cui si collocano, allo stesso tempo, l'obbligo di non ingerenza e il dovere di ingerenza.
Il principio di sussidiarietà presenta, in altri termini, un duplice aspetto.
Un aspetto negativo per il quale “l’autorità in generale e lo stato in particolare non devono impedire agli individui o ai gruppi sociali di compiere le proprie azioni, vale a dire di dispiegare per quanto possibile la loro energia, la loro immaginazione, la loro perseveranza, nelle opere con cui si realizzano a beneficio sia dell’interesse generale, sia dell’interesse particolare”. Potremmo sintetizzare dicendo che lo Stato, in questa prospettiva, ha il dovere di non intervenire.
L’aspetto positivo della sussidiarietà si concretizza nell'attribuire allo Stato, e all’autorità in generale, “il compito di incentivare, di sostenere e, da ultimo, se necessario, di supplire gli attori incapaci”. In questa prospettiva, cioè, lo Stato ha il dovere di intervenire.
Nel difficile equilibrio tra dovere di non ingerenza e obbligo di intervenire si articola la dimensione politica e giuridica della sussidiarietà.
Il problema è, innanzitutto, il ruolo dello Stato e dell'autorità in genere, l'equilibrio tra “diritti-pretesa” e “diritti-libertà”, la responsabilità e la partecipazione del cittadino al bene comune: “l'idea di sussidiarietà si inscrive in questa problematica inquieta. Essa vorrebbe superare l'alternativa tra il liberalismo classico e il socialismo centralizzatore, ponendo in maniera differente la questione politico-sociale. Essa legittima dal punto di vista filosofico i 'diritti-libertà' e ritorna alle origini dei 'diritti-pretesa' che presume sviati dal loro primitivo fondamento. Perviene così ad un accordo possibile e stabile tra una politica sociale e uno stato decentrato, sia pure a mezzo di due rinunce: l'abbandono dell'egalitarismo socialista a vantaggio del valore della dignità; l'abbandono dell'individualismo filosofico a vantaggio di una società strutturata e federata”[7]
Siamo dunque in presenza di un principio che presenta una notevole incidenza politica non solo nel senso istituzionale del termine, con riferimento agli istituti della partecipazione e del pluralismo, ma anche nel senso di principio che investe direttamente il tema della cittadinanza sforzandosi di definire l’ambito delle libertà d’azione, il ruolo e la funzione dell'autorità, la dignità della persona, il bene comune.
La difficoltà delle concrete applicazioni del principio, che portano a quella distanza accennata, sono dovute al fatto che, evidentemente, il principio non è accolto nella sua interezza e con tutte le sue premesse ed implicazioni teoretiche ed etiche: la filosofia dell'azione che lo sorregge, l'antropologia di fondo che lo anima, le concezioni del diritto e della politica che ne conseguono.
Anche nel dibattito attuale, l'uso equivoco e retorico del principio rischia di essere un elemento caratterizzante. Il principio “se, da una parte, sembra quasi voler riportare il giuridico alla sua vera radice, dall'altra resta troppo avviluppato in una logica che è quella statocentrica, per cui viene utilizzato come strumento in grado di mantenere i rapporti di potere e non come principio di difesa della responsabilità del cittadino e della validità dell'esistenza di corpi intermedi di vario tipo, che realizzano relazionalità e giuridicità o di una precedenza da dare all'individuo e alla società civile nei confronti dell'organizzazione politica in relazione a determinati aspetti della responsabilità”[8].
4. Nell'ultima parte del libro citato di Riccardo Misasi incontriamo molti dei motivi che caratterizzano il tema della sussidiarietà, anzi non è esagerato sostenere che in quelle pagine si tratteggi un vero e proprio “stato della sussidiarietà”, a partire dalla consapevolezza che il tema dell’autonomia non è solo uno strumento tecnico-giuridico ma è soprattutto una esigenza ineludibile della persona.
Da qui la sua interessante ricostruzione storica sulle ragioni teoriche e politiche della mancata attuazione di un ordinamento basato sulle autonomie; la individuazione di una serie di coordinate essenziali di uno stato della sussidiarietà, riprendendo l'idea di comunità delle comunità; la lettura completa del principio federale basato appunto sulla sussidiarietà. Da qui, infine, la particolare attenzione ad un altro aspetto della dimensione politica della sussidiarietà e cioè la riflessione sul tema della partecipazione e sulla necessità non di una terza via ma di una via altra rispetto a liberalismo e socialismo e quindi la rilettura del popolarismo e di Sturzo.
Ma procediamo con ordine.
5. Con la capacità di leggere nella storia e nella storia del pensiero, c'è in Riccardo la interpretazione chiara della sottovalutazione del ruolo delle autonomie. L'analisi è lucidissima: il coniugarsi del razionalismo e della utopia rivoluzionaria con il modello di Stato accentrato ereditato dall’Ancien regime contiene geneticamente gli esiti del pensiero moderno rappresentato dall’hegelismo e dal marxismo[9]. In questa prospettiva, “lo Stato si pone come il garante ed il tutore esclusivo dei bisogni e degli interessi dei singoli cittadini, componenti la Nazione. Con la sua forte amministrazione distribuita anche perifericamente, esso è in rapporto diretto con l’individuo; poco o nessuno spazio consente alle comunità intermedie, alle quali non concede alcuna reale autonomia, ma solo un certo decentramento di funzioni amministrative. Le Comunità, le formazioni spontanee ed originarie di autonomia non hanno di per sé valore. Il valore è nello Stato ed è esso che solo può e deve assicurare l’uguale tutela dei cittadini”[10].
Lo stato italiano post-unitario risente di questa impostazione che non viene meno, anzi si rafforza successivamente con i riformismi di diversa natura (e qui mi sembra di coglierere una nota di autocritica, anche se nelle pagine successive ricorda orgogliosamente il tentativo di De Mita di avviare una politica di riforme istituzionali …): le riforme, infatti, da una parte, “hanno significato e sono venute sempre più realizzando una grandiosa espansione della tutela dei bisogni, allargondola via via a nuove esigenze, prima ignorate ed escluse” [11], con la conseguente notevole espansione dei compiti dello Stato ed un grande miglioramento delle condizioni di vita; dall’altra, hanno comportato “una corrispondente elefantiasi della macchina amministrativa e la nascita di mastodonti burocratici, ai quali si sono spesso collegate lentezze ed inefficienze”[12].
6. Abbiamo detto: dovere di ingerenza-obbligo di non ingerenza. Ma come evitare l'arbitrio? Come impedire le opposte derive dello stato onnipotente e dello stato latitante?
Ponendosi come principio di ordine, come “la sintesi o la linea conduttrice del passaggio dalla società storica all'organizzazione politica”[13], il principio di sussidiarietà non stabilisce regole valide in ogni contesto per definire il 'quando' e il 'quanto' dell'ingerenza statale; non è definibile a priori ma “diviene necessariamente visibile e conoscibile nella continuità del suo verificarsi e nelle dinamiche processuali mediante le quali appunto prende consistenza ai nostri occhi”[14]. Il principio proprio perché finalizzato alla dignità della persona e al bene comune è mobile, non può e non deve dare indicazioni nette, tassative, ma bisogna valutare caso per caso.
In questa difficile opera di valutazione, mi sembra che giochino un ruolo fondamentale, da una parte, il richiamo alla filosofia pratica e alla prudenza di matrice aristotelica. In questa prospettiva, “alla politica serviranno, non uomini illuminati come voleva il dispotismo, non muti servitori di una teoria, ma uomini prudenti, cioè armati della umana saggezza, che sappiano o­pe­rare attraverso i meandri delle situazioni sempre differenti e aleatorie”[15]. Dall'altra parte, diventa centra la considerazione del ruolo delle autonomie, delle formazioni sociali, della partecipazione individuale nella prospettiva di un governo delle prossimità capace di individuare, nel modo più preciso e delimitato possibile, i bisogni reali e per soddisfarli in modo puntuale con costante riferimento al valore della dignità della persona e del bene comune.
Chiarissmo l’esempio che Misasi propone: “se in una famiglia  ci sono più figli ed uno di essi non va tanto bene a scuola, il padre di famiglia, o la famiglia nel suo insieme, curerà quest’ultimo e forse gli farà fare lezioni private da un insegnante. Non chiamerà tanti insegnanti per quanti sono i figli, magari in nome di un astratta principio di eguaglianza: tutelerà invece il bisogno vero, lì dove esiste”[16].
7. Queste considerazioni si legano ad un altro tema straordinariamente importante: quello della dimensione più prettamente “politica” della sussidiarietà, che in questa sede può essere solo brevemente accennato.
Anche in questo campo l'attuazione coerente del principio presenta ostacoli quasi insormontabili: se, come abbiamo accennato, sul terreno giuridico, la sussidiarietà presuppone una visione complessa e relazionale del diritto, in un contesto culturale dominato però da visioni procedurali, formali e statualistiche; sul terreno politico essa richiede la centralità dell'iniziativa e della partecipazione individuale in un contesto, quale quello odierno, di progressiva de-responsabilizzazione del cittadino e la sua riduzione a mero individuo-consumatore-spettatore nella grigia prospettiva di una democrazia del marketing o dell'audience[17].
Sussidiarietà significa partecipazione, alla realizzazione del proprio mondo, quindi partecipazione non solo in senso decisionale, ma anche come iniziativa e realizzazione[18]; significa responsabilità nel senso che l'individuo deve essere messo in grado e deve poter pretendere di essere messo in grado di risolvere tutti i problemi.
Il tema della responsabilità permette di inquadrare correttamente la politica non solo in termini di potere ma anche e soprattutto in termini di funzione. Se la politica è concepita come potere, la sussidiarietà non è che un mero criterio di distribuzione delle competenze tra organi più o meno decentrati; ma non si tocca il nodo essenziale che “resta quello della responsabilità che l'uomo ha della sua comunità, vale a dire, per la realizzazione e il funzionamento della sua organizzazione politica, che è cosa ben diversa dalla responsabilità che l'uomo ha verso la comunità”[19].
8. Un'ultima, velocissima, considerazione mi sembra utile svolgere. Il principio di sussidiarietà nella sua formulazione più completa, che è quella elaborata dalla dottrina sociale della Chiesa a seguito della rilettura e dell'adattamento del tomismo alla società moderna, non vuole rappresentare la raffigurazione di una terza via tra liberalismo e socialismo, una formula compromissoria o eclettica che si costruisce attingendo dall'uno o dall'altro. Si tratta di un principio che esprime, invece, una concezione autonoma sia per quanto riguarda i presupposti teoretici, sia per quanto riguarda i contenuti e le possibili sfere di applicazione. Si tratta di un principio che esprime un pensiero fondamentalmente diverso dal liberalismo e dal socialismo (e la riflessione della Millon-Delsol puntualmente si preoccupa di dimostrarlo). Di fronte al dibattito tra liberalismo e socialismo, la proposta della sussidiarietà è, sul piano teorico e sulle applicazioni pratiche, assolutamente 'altra'. La dignità della persona, su cui si basa il dovere di ingerenza che caratterizza la sussidiarietà, non coincide pur comprendendoli né con l'uguaglianza né con la libertà che giustificano l'intervento statale nella visione socialista e liberista. Anzi, le applicazioni di questi modelli, nel capitalismo e nel marxismo, rappresentano un ostacolo all'autentico sviluppo della persona umana[20].
Nella visione socialista non c'è spazio per una dignità umana su cui fondare i diritti e lo Stato, ma anche la responsabilità e l'azione del soggetto. Nell'individualismo filosofico, caratterizzato da contratti utilitaristici, non c'è spazio per una visione ontologica del bene comune, nel senso di un bene che attiene alla socialità e alla relazionalità umane[21]. Si tratta, in definitiva, di “un modello adatto all'uomo com'è, utilizzabile come norma nella misura in cui la descrizione dell'uomo individuale e sociale permette di esprimere una nozione di diritto naturale e fedele alla realtà moderna. La scomparsa della società olista obbliga a respingere la comunità organica a meno di non intenderla nella coercizione. Ma la certezza che l'uomo è un essere socievole obbliga pure a cancellare l'idea che esso agisca e si associ solo per interesse”[22].

 

 



[1] R. Misasi, Storia di un Libero Comune. Dall’esperienza antica di Orvieto provocazioni e pensieri per oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998.
[2]  Mi permetto di rinviare alla mia, Postfazione a C. Millon-Delsol, Lo Stato e la sussidiarietà, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2009. Cfr. anche, M. Sirimarco (a cura di), Casa, Borgo, Stato. Intorno alla sussidiarietà, in corso di stampa.
[3] De Rita ravvisa in ciò una profonda trasformazione del pensiero di Misasi, dalla centralità “demitiana” dell’autonomia della politica all’attenzione rinnovata verso la dimensione metapolitica e spirituale della politica stessa.
[4] E. Guccione, … Sulla prospettiva internazionale di Sturzo, cfr. A. Fruci, …., Aracne, Roma, 2009.
[5] Come è noto, in sede di Assemblea costituente Giuseppe Dossetti avanzò una proposta di o.d.g., mai messa ai voti, nella quale, a proposito della impostazione di una dichiarazione dei diritti dell'uomo, si sosteneva: “1) la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni, non solo materiali ma anche spirituali) rispetto alla Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; 2) la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e a perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie, disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.) e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; 3) l'esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato” (Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea Costituente, Roma, 1971, VI, pp. 323 ss.). Cfr. anche G. Dossetti, Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, in Scritti politici (1943-1951), Genova, 1995. Sul pensiero di Dossetti, v. P. Acanfora, I 'liturgici di Dio': il mito dello stato nuovo in Giuseppe Dossetti, in M. Sirimarco, (a cura di), Itinerari di cultura giuridica e politica, Roma, 2004. Sul contributo cattolico alla stesura dell'art. 2 (dove si evidenziò in particolare l'impegno di Giorgio La Pira e di Aldo Moro), cfr. N. Antonetti, U. De Siervo, F. Malgeri (a cura di), I cattolici democratici e la Costituzione, Bologna, 1998 (utile anche la lettura delle lezioni baresi di filosofia del diritto di Moro raccolte nel volume, Lo Stato, Padova, 1943). Sulla 'inattuazione' dell'art. 2 Cost., cfr. M. Tringali, Stato nazionale e/o sussidiarietà, in M. Sirimarco (a cura di), Casa, Borgo, Stato. Intorno alla sussidiarietà, Roma, in corso di stampa, per il quale la considerazione dello Stato come attore preminente della politica economica e la considerazione della società civile come impreparata ad affrontare i problemi della ricostruzione, sono alla base della inattuazione dell'art. 2”. Per F. Gentile, Il principio di sussidiarietà e la via pedagogica del diritto naturale, in “La società. Studi, ricerche, documentazione sulla dottrina sociale della Chiesa”, IX (1999), 4, p. 763, la causa autentica e profonda deve essere individuata “nella natura stessa della Costituzione, così come è stata concepita, nel segno del principio di sovranità” e secondo la concezione hegeliana della costituzione come qualcosa di divino. In realtà, a mio avviso, il problema è ancora più complesso: è l'intera cultura giuridica italiana che ha in qualche modo rimosso il principio di sussidiarietà. Mi sembra che nella nostra più recente tradizione giuridica abbia prevalso una lettura caratterizzata dalla riduzione della persona al singolo con la conseguenza che il riferimento costituzionale alle formazioni sociali (ma stesso discorso potrebbe farsi sulla portata autonomistica dell'art. 5) sia stato considerato meramente accessorio, una semplice aggiunta, una garanzia ulteriore e supplementare rispetto alla centralità del riconoscimento dei diritti inviolabili dell'individuo considerato, appunto, come singolo. Ricordo, infine, la tesi di A. D'Atena, Il principio di sussidiarietà nella Costituzione italiana, in “Riv. ital. diri. pubbl. comunit.”, 1996, p. 605, per il quale la discussione sul principio di sussidiarietà è rimasta fondamentalmente estranea al dibattito in Assemblea costituente.
[6] Nel nostro ordinamento è stato introdotto, con la modifica del Titolo V della Costituzione, un principio di sussidiarietà verticale che comporta una serie di delicate questioni di distribuzione di competenze legislative ed amministrative (cfr. per esempio la sentenza 303/2003 della Corte Costituzionale). Per un inquadramento giuridico del principio, P. Duret, Sussidiarietà e autoamministrazione dei privati, Padova, 2004, p. 30 e ss., che ricorda il contributo di Von Mohl, Jellinek e della Scuola di Friburgo che tende a sostituire il Welfare State con una Welfare Society. Cfr. G. Arena, Cosa è la sussidiarietà, in L. Franzese (a cura di), Il principio di sussidiarietà tra politica e amministrazione, Consiglio regionale Friuli Venezia Giulia, 2009.
[7] C. Millon-Delsol, Lo stato della sussidiarietà, Gorle, 1995, p. 9.
[8] T. Serra, Il diritto tra sovranità e sussidiarietà di fronte alla tecnocrazia, in M. Sirimarco (a cura di), Casa, Borgo, Stato. Intorno alla sussidiarietà, cit.
[9] Per una conferma della matrice sturziana di questa tesi, cfr. E. Guccione, Dal federalismo mancato al regionalismo tradito, …
[10]  Misasi, p. 401.
[11] Misasi, p. 402.
[12]  p. 402.
[13]  G. Berti, Principi del diritto e sussidiarietà, in “Quaderni fiorentini”, XXI, 2002, p. 386.
[14]  G. Berti, ibidem.
[15]  C. Millon-Delsol, Lo Stato della sussidiarietà, cit., p. 147.
[16] Misasi, p. 417.
[17] Cfr. T. Serra, Il diritto tra sovranità e sussidiarietà, cit., che giustamente ricorda che il principio viene riscoperto “con riferimento ad un politico visto dal lato del potere, dove si carica di un significato giuridico-politico, non con riferimento al tema della responsabilità, dove al politico si conferirebbe  un significato di funzione”.
[18] Cfr. F. Benvenuti, Il nuovo cittadino. Tra libertà garantita e libertà attiva, Venezia, 1994. V. anche G. Arena, Cittadini attivi, Roma-Bari, 2006.
[19]  T. Serra, op. cit.,
[20] Cfr. Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, Città del Vaticano, 1988, par. 21 e 22.
[21] Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate, Città del Vaticano, 2009. In questa nuova recentissima enciclica, viene ripresa la tradizionale definizione di sussidiarietà con in più il riferimento importante al governo della globalizzazione: “Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz'altro il principio di sussidiarietà, espressione dell'inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetto sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perchè favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima costituzione dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano. Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli  e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace”.
[22] C. Millon-Delsol, Lo stato della sussidiarietà, cit., p. 183. Cfr. G. Franchi, La filosofia sociale di othmar Spann, Roma, 2002.