de lorenzo
La spesa sociale
intervista al prof Nino De Lorenzo
a cura del dott Luigi Petramala
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Prof De Lorenzo, recentemente il Fondo Monetario Internazionale ha sottolineato l’importanza della crisi economica che, negli ultimi anni, sta interessando differenti strati della società civile, ribadendo come non esistano più beni considerati al sicuro.

 
Come recentemente ribadito dal Global Financial Stability Report del FMI, la progressiva crisi finanziaria che, negli ultimi anni, sta interessando differenti macroregioni mondiali, fa sì che nessuna Nazione possa essere considerata veramente sicura; ciò testimoniato anche dal recente downgrade del rating di differenti Nazioni, in precedenza considerate virtualmente prive di rischio (come i titoli di stato americani e i bund tedeschi, da sempre visti “beni rifugio”) e, di conseguenza, dall’insorgere di preoccupazioni circa la sostenibilità del rispettivo debito sovrano. 

Un elemento che indiscutibilmente aggrava le spese nazionali è costituito dai maggiori costi che gli Stati devono sostenere per la copertura delle spese sociali, quali assistenza sanitaria ed oneri pensionistici.

Certo, ad incrementare le incertezze circa la stabilità economica degli Stati vi è anche il progressivo aumento della vita media, da sempre considerato come indice di un benessere individuale e collettivo, ma indiscutibilmente associato alla lievitazione dei costi collegati ad una maggiore aspettativa di vita che i Governi devono sostenere sia in termini di piani pensionistici che di assistenza sanitaria. Le implicazioni finanziarie di una vita più lunga sono differenti e, non in ultima analisi, da considerare anche in termini di sostenibilità fiscale, con un deleterio incremento del rapporto debito/PIL e solvibilità degli istituti finanziari e fondi pensione, con possibile effetto negativo su settori pubblici e privati, già indeboliti negli ultimi anni.

Ritiene quindi necessario un intervento strutturale del sistema assistenziale?

Il FMI sottolinea che per bilanciare la combinazione “aumento vita media-aumento spese sociali” sia necessaria una revisione integrata del sistema assistenziale, attraverso differenti interventi strutturali, come l’aumento dell'età pensionabile di pari passo con l'aumento dell'aspettativa di vita, più alti contributi pensionistici con una riduzione dei benefit da pagare e maggiore utilizzo di prodotti finanziari (fondi pensione ed assicurazioni, considerati più attrezzati per gestire i rischi finanziari). Infatti, un ulteriore incremento dell’aspettativa di vita può esercitare un’azione deleteria sui conti delle Nazioni, con un significativo aumento della spesa per garantire i servizi assistenziali e fiscali; ad esempio, una recente stima indica che, rispetto alle stime attuali, un incremento di soli 3 anni della vita media nel 2050 provocherebbe una richiesta aggiuntiva per la copertura di spese sociali pari al 1-2% annuo del PIL, ovvero un costo aggiuntivo pari al 50% del PIL del 2010 per le economie “avanzate” (passando dal 5.3 all’11.1%) e del 25% per quelle “emergenti” (dal 2.3 al 5.9%).

Il progressivo incremento dell’aspettativa di vita è associato anche ad un peggioramento della qualità della vita? E soprattutto, questo fenomeno riguarda anche l’Italia?

L’allungamento della durata della vita media, che nell’ultimo secolo ha assistito ad un notevole incremento (superiore ai 30 anni), si associa indiscutibilmente, sia nei paesi “Occidentali” che in quelli in “via di sviluppo”, al progressivo incremento delle cosiddette malattie cronico-degenerative (quali le patologie cardiovascolari, le neoplasie, il diabete mellito, le patologie osteoarticolari e quelle correlate all’obesità), che hanno un notevole impatto sui costi della spesa sanitaria, valutato intorno al 46% della spesa sanitaria globale nell’ultimo decennio, ed una stima oltre il 57% entro il 2020. Ad esempio, si calcola che il Diabete Mellito, condizione ad alto impatto sociale con elevate spese sanitarie, entro il 2025 avrà un significativo incremento della sua prevalenza di circa il 20-50% nei paesi industrializzati, ed oltre il 120-180% nei paesi in via di sviluppo, passando dai circa 190 milioni di persone affette nel 2000 fino a 446 milioni nel 2025.

In Italia si calcola che oltre il 35% della popolazione generale presenta almeno una patologia cronico-degenerativa, con percentuali maggiori nelle regioni del Meridione, come la Basilicata, la Sardegna e la Calabria (oltre il 40%), con significative ricadute su maggiori spese sanitarie sostenute dalle Regioni.

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 Altro fenomeno importante è l’aumento della quota di popolazione anziana (oltre i 65 anni), ovvero di quelle fasce di età in cui si osserva una maggiore presenza delle patologie cronico-degenerative; ad esempio, in Italia nei prossimi 40 anni è previsto un lieve aumento della popolazione generale, intorno all’1.5%, ma con un significativo incremento della percentuale di soggetti ultra sessantacinquenni, oltre il 30%. Tutto ciò per dire che nei prossimi anni si assisterà non solo ad un aumento globale dell’impatto delle patologie croniche sulla qualità generale di salute, ma anche ad una maggiore richiesta di investimenti in termini di prestazioni sanitarie (sia pubbliche che private), attualmente valutati intorno al 6%, con una stima fino al 10% intorno al 2050.

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 Quindi converrebbe attuare piani di prevenzione di tali patologie croniche?

A tal riguardo, un recente studio OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha evidenziato come in alcune Nazioni (quali Canada, Olanda, Spagna, Francia ed USA) un progressivo incremento della spesa in prevenzione è associata ad una progressiva e significativa riduzione della spesa per prestazioni curative e di riabilitazione; in particolar modo, un incremento dell’1% del rapporto spesa in prevenzione su spesa sanitaria pubblica è associato ad una riduzione del 3% nella spesa destinata alle prestazioni terapeutiche, stimabili, ad esempio in Italia, entro il 2050, in 17,1 miliardi di euro, pari a una riduzione dello 0,6% nel rapporto spesa sanitaria pubblica su PIL.

 

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Negli ultimi decenni, in Italia la spesa in prevenzione ha assorbito una quota marginale della spesa sanitaria pubblica (circa 0.4% alla fine degli anni ’90 e 0.8% nel 2007), per cui risulta indiscussa la necessità di modificare l’atteggiamento nei confronti delle patologie croniche, spesso correlate all’obesità e ad erronei stili di vita, in particolar modo attraverso la promozione di corretti atteggiamenti comportamentali tramite l’adozione di una dieta equilibrata, bilanciata ed adeguata, e l’implementazione di un’attività fisica individualizzata.

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Come lo stile alimentare può interagire con tali situazioni

Il modello alimentare agisce a qualsiasi età e su tutti i principali fattori di rischio che favoriscono lo sviluppo delle malattie croniche, quali principalmente l’obesità. È ormai diffusa l’opinione che l’obesità non può più essere vista come un semplice problema estetico o sociale, ma deve essere considerata, a tutti gli effetti, una malattia con grave rischio, responsabile di mortalità prematura e di comorbilità per milioni di persone, e che provoca una spesa che incide significativamente sulle risorse economiche, con notevoli costi psicosociali e socioeconomici.
Negli ultimi anni in tutto il mondo, nel Nord America come in Europa, si è assistito ad un progressivo aumento della prevalenza dell’obesità, con tassi medi superiori al 30-35% della popolazione generale.

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 Purtroppo tale fenomeno interessa in proporzione sempre maggiore le fasce più giovani della popolazione; a riguardo, secondo l’International Obesità Task Force negli ultimi 10 anni l’incidenza dell’obesità in età infantile è raddoppiata in molti Paesi dell’Europa, con valori medi del 24%, e tassi oltre il 30% in alcuni Paesi del Mediterraneo, come Grecia, Spagna ed anche l’Italia. In particolare, proprio in Italia, uno studio condotto sui ragazzi in età scolare (8 anni) ha evidenziato come il soprappeso e l’obesità raggiungano tassi del 36%, raddoppiati rispetto ai valori osservati in passato (intorno al 20%), e che le regioni maggiormente coinvolte sono le regioni meridionali, con tassi che superano il 40% in Sicilia, Campania e Calabria.

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A riguardo, diversi sono gli elementi che sono stati correlati allo sviluppo di obesità in età giovanile, e particolare attenzione è stata posta su erronee abitudini alimentari, quali una scarsa colazione al mattino, un insufficiente introito giornaliero di frutta e verdura, un’insufficiente attività fisica ed un eccessivo tempo dedicato ad attività sedentarie (come guardare la televisione o i giochi al computer). È stato inoltre osservato che un’influenza negativa sullo sviluppo dell’obesità infantile è svolto da alcuni fattori non direttamente di pertinenza medica, ma di elevato interesse “sociale”: si registra spesso, infatti, una scarsa percezione da parte dei genitori del reale stato nutrizionale del proprio figlio, con maggiore possibilità di avere un figlio obeso/sovrappeso in quelle famiglie in cui il titolo di studio dei genitori è la licenza media o superiore, rispetto ai figli di genitori con un titolo di studio maggiore, fenomeno più evidente soprattutto nelle regioni meridionali.
Intervenire in età giovanile è importante, sia dal punto di vista strettamente medico che per un miglior utilizzo di risorse pubbliche: oltre l’80% dei ragazzi obesi all’età di 10-12 anni sarà obeso nell’età adulta, con un maggiore rischio di sviluppare patologie croniche, come il diabete mellito o la cardiopatia ischemica (oltre 3 volte) e l’ipertensione arteriosa (4 volte). L’obesità e le patologie ad essa correlata hanno quindi un rilevante peso sociale anche per l’impegno non indifferente di risorse; ad esempio, prevenire e trattare l’obesità significa ridurre la possibilità di sviluppare un franco diabete mellito, con un risparmio di risorse valutabile in circa 150.000 €/anno per ogni paziente; oppure, la perdita di peso di circa 7 kg in un individuo obeso comporta una riduzione della spesa sanitaria fino a 500 euro pro capite/anno.
E’ importante riaffermare che non è mai troppo tardi per intervenire: è oggi dimostrato che negli anziani, così come negli adulti e negli adolescenti, gli adulti del futuro, esiste sempre uno spazio di azione per attuare misure preventive che indubbiamente porteranno a benefici sia in termini di salute pubblica sia in termini di risparmio di risorse.

Quindi risulta importante favorire condotte di stili di vita più correte e salutari per il prossimo futuro, anche se con un maggiore impatto sulle spese generali?

Diversi studi dimostrano che il cambiamento delle scelte alimentari verso cibi salutari non comporta una maggiore spesa economica, e pertanto non può rappresentare una barriera verso l’adozione di stili di vita salutari. A supporto delle pianificazioni sanitarie, politiche ed economiche, differenti analisi economiche dimostrano che, tra gli interventi nutrizionali, la Dieta Mediterranea insieme al cambiamento dello stile di vita (TLC) presenta il miglior rapporto costi-benefici; basti pensare che il costo annuo pro capite per la promozione della Dieta Mediterranea è di circa 600 Euro, nettamente inferiore alla spesa per la terapia farmacologica per trattare l’ipertensione arteriosa o per l’ipercolesterolemia (1000-3500 Euro) o la spesa necessaria per effettuare un bypass coronarico (20.000 Euro).
Le strategie di intervento basate sulla promozione di corrette abitudini alimentare devono prendere in considerazione le peculiarità alimentari delle diverse realtà regionali. Purtroppo fa male registrare come proprio in Calabria, terra in cui la Dieta Mediterranea è stata codificata da Ancel Keys nei non lontani anni ’60, si registrano i maggiori tassi di obesità, dell’adulto così come dell’adolescente, e di patologie cronico-degenerative, fenomeni dovuti al progressivo abbandono dello stile divta che comprende sia la Dieta Mediterranea che un’adeguata attività fisica. Proprio nelle regioni del Meridione come la Calabria, per la facilità di reperire alimenti ad alto profilo nutrizionale, soprattutto a “Km zero”, è di notevole importanza ed utilità promuovere uno stile di vita basato su un’alimentazione sana, bilanciata ed equilibrata ed una maggiore attività fisica, con interventi che presentano un ottimo rapporto spesa/efficacia, con indiscutibili effetti benefici sulla spesa sanitaria, notevolmente in deficit negli ultimi anni.
Sta alla politica, attraverso iniziative intersettoriali che coinvolgano differenti ambiti e competenze, sia a livello locale che nazionale, implementare tali azioni su tutte le fasce di popolazione, ma con particolare attenzione rivolta verso le classi svantaggiate più a rischio, quali gli adolescenti o gli anziani, in cui coesistono spesso comorbidita' e scarsità delle risorse, e i gruppi più deboli, quelli a basso reddito e a minor grado di istruzione, più suscettibili a errate condotte di stili di vita.
Attuare il concetto di “Prevenzione” non è certo facile, richiede tempo, impegno e pretende che la politica, così come la classe medica e gli stessi consumatori, siano consapevoli che prevenire è una “terapia” che fornisce migliori risultati in termini di costi/benefici rispetto alle cure tradizionali, e che tale processo non può essere disgiunto da una continua attività di formazione intersettoriale di ogni ordine e grado.
La nutrizione deve rappresentare una materia fondamentale quanto la terapia medica perché, e questo oggi è un concetto accettato, rappresenta uno strumento di cura e di prevenzione insostituibile. Insegnare al paziente come nutrirsi per attuare una prevenzione efficace delle principali malattie croniche è la migliore possibilità di cui oggi si dispone per fronteggiare l’epidemia di obesità, malattie cardiovascolari, patologie neoplastiche e la maggior parte di quelle patologie che hanno costi altissimi per la società.
Portare i bambini a preferire cibi meno ricchi di energia ma più nutrienti e più sani avrà sicuramente un effetto positivo sulla loro crescita e sulla loro vita futura, in termini di miglioramento della qualità di vita, ma anche in termini economici se consideriamo il risparmio che deriverà da una riduzione dell’incidenza delle malattie croniche.
Tra gli indicatori che oggi possediamo per valutare la qualità del nostro stile di vita, di estrema utilità risulta l’Indice di Adeguatezza Mediterranea (IAM), indicatore dell’adeguatezza della nostra alimentazione allo stile dietetico basato sulla Dieta Mediterranea, ancor più di qualsiasi altro discutibile indicatore, come ad esempio il diffuso e oltremodo abusato PIL. Basti pensare che al progressivo peggioramento della qualità di salute che si è registrato negli ultimi decenni in Calabria, si associa una significativa riduzione dello IAM, passando da un valore medio di 9 negli anni ’60, in cui basse erano le prevalenze di obesità e delle altra patologie cronico-degenerative, fino al valore medio di 2 dei nostri giorni. Aumentare lo IAM significa non solo proteggere e curare l’obesità e le patologie ad essa connesse, con conseguente riduzione delle spese sanitarie, ma anche aumentare lo stato di benessere personale edonistico e, non da ultimo, migliorare le condizioni sociali; obiettivi, questi, di fondamentale importanza per ovviare al progressivo decadimento e depauperamento delle risorse nel Meridione, processo che, se non interrotto, vedrà un sempre maggiore distacco fra Nord e sud di Italia.
Attuare questi concetti non è certo facile, richiede tempo e impegno, pretende che la classe politica, quella medica, la società civile e i consumatori incominciano a credere che prevenire è una “terapia” che fornisce migliori risultati in termini di costi/benefici rispetto alle cure tradizionali. Di sicuro un farmaco è molto più facile da prescrivere e fornisce in genere risultati immediati, ma indiscutibilmente a fronte di maggior carico sulla spesa sanitaria. Fare in modo che gli utenti si abituino a utilizzare a fini preventivi funzioni fisiologiche, quali nutrirsi e camminare, richiede più tempo, ma i risultati saranno immediati e sicuramente più favorevoli, meno costosi e di più lunga durata per la comunità.

“Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del PIL. Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana, cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari….Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia, non comprende la solidità dei valori familiari, non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Robert Kennedy, Marzo 1968, Università del Kansas