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Ho letto con interesse “I bisogni della vita futile” di Giuseppe Capograssi, introdotto da Mario Sirimarco, che di seguito pubblichiamo, e mi ha fatto piacere la conferma del mai cessato interesse scientifico per il filosofo, alla cui opera devo molto di significativo per averne approfondito alcuni temi.

E’ emozionante,sempre, “capire” un pensiero rigoroso senza essere ristretto in regole e canoni unicamente teorici, un pensiero “umano” e rivolto alla umanità dell’uomo così, naturalmente e semplicemente, unica condizione che ti rassereni facendoti  apprezzare il mondo e tutto ciò che pulsa di vita.

La lettura ci consente una prima riflessione: “nulla è più misterioso di questo individuo che a guardarlo quasi svanisce, inserito com’è in cose che appaiono più grandi di lui, quali la società, lo Stato, la storia, insomma la Vita”

Seconda riflessione: Esiste veramente l’individuo?.

Terza riflessione: per esistere egli deve  preservare la propria personalità e dispiegare le proprie potenzialità di umanità e di vita.

Quarta riflessione: dopo le tragedie e le miserie del novecento ci ha sostenuto la speranza per riscattarlo. Oggi il vero pericolo è che l’uomo diventi “superfluo” secondo l’ammonizione di Hannah Arendt.

Come ricorda Sirimarco, nello spiegare il perché della catastrofe, che ha segnato in modo indelebile la nostra storia e la nostra identità di europei nel ‘900, Capograssi ricorda che “la catastrofe è stata possibile proprio perché si è affermata una certa falsa idea della vita e dell’umanità, l’idea cioè che “l’umanità non ha valore per sé; l’individuo non è (più) un essere intelligente e morale che ha una legge e una sua verità: non è che un astratto paradigma di forze, un’astratta capacità di obbedienza, una forza puramente passiva.
Quello che vale è il fine, lo scopo che i gruppi dominanti vogliono realizzare, e verso il quale vogliono avviare l’individuo.
L’individuo non è (più così) libertà ma pura passività; e l’umanità è materia nella quale s’imprime da fuori la direzione e la forma che si vuole”.

Dunque “il vero rischio per l’individuo è la passività, l’inerzia, la non partecipazione. Il vero rischio è che da padrone del mondo l’uomo si trasformi in un suo ospite; un ospite marginalizzato, robotizzato, asservito ad un potere che si costituisce sempre più lontano dalla realtà esistente concentrando tutta la sua forza nel creare un consenso senza controllo da parte dei cittadini”.

Ma Capograssi era altresì consapevole, ed il suo messaggio è stato sempre eloquente ancorchè discreto ma forte, che “è’ necessario avere la follia o la stoltezza di essere persuasi, che ognuno di noi può e perciò deve trasformare il mondo; che ognuno di noi, che uno qualunque di noi può, se riesce a salvare l’umanità in se stesso, a realizzare pienamente l’umanità in sé, a vincere veramente il male, a credere veramente in Dio, può salvare la storia; salverà la storia. La vecchia Europa, in quella parte donchisciottesca di essa, che costituisce veramente la sua grandezza, non è stata altro che questa follia …….… manteniamoci fedeli a questa follia”.

Così la speranza diventa un bisogno.

Franco Petramala

Mario Sirimarco
I bisogni della vita futile
Rileggendo alcune pagine di Giuseppe Capograssi

 

Sarebbe velleitario, oltre che presuntuoso, voler presentare in poche pagine un filosofo complesso come Giuseppe Capograssi; ci limitiamo solo a qualche generale considerazione che possa aiutare ad introdurre il brano presentato o, vero intento di chi scrive, a suscitare un minimo di curiosità per questa straordinaria figura.
Indubbiamente Capograssi (Sulmona 1889 – Roma 1956) è stato uno dei filosofi più importanti nella cultura italiana del ‘900: c’è addirittura chi lo ha considerato il successore di Antonio Rosmini e Giovambattista Vico, l’erede della nostra più gloriosa tradizione filosofica[1]. Nonostante ciò il suo nome rimane pressoché sconosciuto al grande pubblico, con non poche responsabilità della cultura cattolica. Del resto il personaggio, schivo e riservato, non ha fatto molto per accedere alla notorietà tanto che, quando nell’aprile del 1956 morì alla vigilia della prima convocazione della Corte Costituzionale, di cui era stato nominato giudice, i giornali del tempo non trovarono una sua foto da pubblicare. Ci restano poche immagini di lui, soprattutto, quella che lo ritrae nel suo studio di Sulmona, sempre oggetto della sua struggente nostalgia. Il suo pensiero e il suo magistero di  un “Socrate cattolico”, invece, hanno lasciato un segno permanente in quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo, o di essere suoi allievi, o in quanti si avvicinano alle sue opere.
Leggendo oggi Capograssi colpisce la sua straordinaria attualità, o la sua inattuale attualità[2], sia per quanto riguarda le opere più direttamente classificabili come scritti di filosofia giuridica e politica (Saggio sullo Stato del 1918, Riflessioni sull’autorità e la sua crisi del 1919, Studi sull’esperienza giuridica del 1932, Il problema della scienza del diritto del 1937, Considerazioni sullo Stato pubblicato postumo nel 1958) sia per quelle che più direttamente contribuiscono a delineare la sua etica (Analisi dell’esperienza comune del 1930, Introduzione alla vita etica del 1953); anche se, come vedremo, non è possibile e non è giusto distinguere nettamente le une dalle altre[3].
L’individuo (quello definito statistico, empirico, comune, l’individuo nella sua concretezza, “l’individuo anonimo perduto nella folla anonima di questi tempi”[4]) è il fulcro della riflessione capograssiana. L’individuo come teatro della storia perché, come ha scritto puntualmente Sergio Cotta, nell’individuo “giungono alla luce e si fanno evidenti quali problemi incarnati, decisivi per il destino dell’uomo e di ogni uomo, tutti i problemi dell’esistere. I (cosiddetti) piccoli come i grandi: dalla frivolezza all’impegno, dal lavoro al riposo, dal diritto alla politica, dal male alla speranza, dalla storia a Dio”[5].
Il mistero dell’individuo è, allora, il filo conduttore del pensiero capograssiano; mistero perché “nulla sembra più inconcepibile del finito che condiziona l’infinito: e in realtà nulla è più misterioso di questo individuo che a guardarlo quasi svanisce, inserito com’è in cose che appaiono più grandi di lui, quali la società, lo Stato, la storia, insomma la Vita. La tentazione di sopprimerlo, di risolvere anche lui nell’infinito o in qualcosa che gli rassomigli è più che naturale. E infatti si pone il problema – eterno problema – della sua esistenza. Esiste veramente l’individuo?”[6].

Il diritto aiuta a rispondere. Ecco perché la filosofia del diritto occupa un posto centrale (anche se rimane sullo sfondo nel testo qui presentato) nell’etica capograssiana. Il diritto non inteso positivisticamente come un asettico insieme di norme e di istituti, ma come espressione della vita. Capograssi, come Rosmini, vede nel diritto l’uomo, la sua azione e, quindi, la storia. La giuridicità, o meglio, l’esperienza giuridica, acquista, infatti, in Capograssi il significato di segno e di sintomo dello stato dell’umanità, la prova che l’individuo esiste e resiste
[7]. Ma, soprattutto, l’esperienza giuridica è la preparazione dell’esperienza morale, “sono la stessa esperienza etica, l’una richiama l’altra”[8]; entrambe, esperienza giuridica ed esperienza morale, contribuiscono a dare il senso della sua filosofia pratica che è quello di un “esorcismo metafisico” contro la presenza del Male, che indica la morte spirituale e la perdita dell’identità dell’agente: la filosofia del diritto diventa la difesa dell’azione, della vita dell’individuo che agisce
[9].
Rischia, allora, di essere estremamente riduttivo, se non adeguatamente precisato, definire Capograssi come filosofo del diritto. Nell’oceano di pensiero capograssiano, infatti, “non si affaccia il filosofo, ma il giurista, o se si vuole il filosofo si affaccia come giurista … E non è senza ragione, poiché nel diritto egli ha visto l’individuo creare se stesso, uscire dalla sua brutale empiricità, costruire la sua azione, che … dalla gioiosa e spensierata aurora si incammina attraverso il sacrificio alla consapevole volontà di se medesima, riconoscere gli altri, formare la sua esperienza, che è appunto il diritto, farsi persona, diventare stato, scrivere la sua storia”[10]. 
In questa prospettiva, l’Introduzione alla vita etica (insieme ai saggi di quel periodo, tra cui quello qui in parte qui presentato che può essere considerato una sorta di testamento spirituale) è l’opera che meglio sintetizza il complesso percorso filosofico di Capograssi e la problematicità e l’originalità del suo “esistenzialismo”.
Dai giovanili entusiasmi idealistici, infatti, Capograssi, grazie all’influenza di filosofi come Agostino e Vico, giunge, seguendo un originalissimo e personalissimo percorso, ad elaborare una filosofia che può definirsi esistenzialistica nel senso di filosofia che coincide con la vita, ma che nulla ha a che vedere con l’esistenzialismo tedesco heideggeriano
[11]. Quest’ultimo, come quello dell’amato Leopardi[12], è un esistenzialismo senza speranza, dominato dall’idea di incomunicabilità e di inevitabile scacco dell’esistenza. L’esistenzialismo, o la filosofia dell’esperienza, di Capograssi supera l’idealismo immanentistico degli esordi, e l’esistenzialismo “negativo”, nell’antropocentrismo cristiano: “La verità … che i maestri del pensiero moderno si sforzano con ogni modo di nascondere a se stessi e agli altri, è che la vita è infelicità, vista con gli occhi del loro sistema. La sola maniera per comprendere l’individuo è di vederlo traverso Dio. Solo vedendo Iddio si comprende l’individuo: e poiché noi in questo non possiamo che intravedere Iddio, così noi possiamo intravedere quell’abisso di pace e di infinito, che è l’individuo”[13].
Il momento pascaliano dell’esistenza, cioè il momento in cui l’individuo scopre l’infelicità essenziale della sua vita, il momento in cui si rende conto che la liberazione che va cercando e che lo ha mosso all’azione non è avvenuta e non può avvenire, il momento in cui si rende, soprattutto consapevole, che i mali sociali hanno il loro primo dato nell’individuo e nella sua vita: “l’individuo è soggetto alla malattia, all’odio e alle tentazioni della forza, capace di opprimere e di essere oppresso, è soggetto alla morte”[14], è il momento decisivo. E’ il momento della speranza, è il momento in cui l’individuo dispera del finito e spera nell’infinito, è il momento in cui l’individuo scopre Dio. Tutta l’etica capograssiana, compresa la sua filosofia politica, trova qui la sua naturale conclusione.
Capograssi è il filosofo che meglio di altri ha descritto la crisi del secolo passato e del mondo contemporaneo, le tragedie e le miserie dei totalitarismi, ma che ha saputo anche individuare dei segni di speranza indicando all’individuo la necessità di essere se stesso, di non lasciarsi massificare e omologare, di preservare la propria personalità e dispiegare le proprie potenzialità di umanità. Il vero rischio è proprio la fine dell’individuo, la disponibilità su di esso esercitata dai detentori del potere; il vero pericolo è che l’uomo diventi “superfluo” secondo l’ammonizione espressa da Hannah Arendt qualche anno più tardi
[15].
Quest’ultima considerazione, probabilmente, aiuta a capire perché Capograssi, negli ultimi giorni della sua esistenza terrena, fosse assillato dal tema della frivolezza con tutte le sue conseguenze sul piano della vita etica, a partire dal rischio concreto che l’individuo possa distrarsi dai bisogni essenziali ed essere più facilmente preda di una sorta di nuovo totalitarismo [16]. Il vero rischio è dato dal ripetersi nella storia (e Capograssi è troppo legato alla lezione di Vico per non mettere in guardia da tutto ciò) di false idee dell’umanità e della vita.
Nello spiegare il perché della catastrofe, che ha segnato in modo indelebile la nostra storia e la nostra identità di europei nel ‘900, Capograssi ricorda che la catastrofe è stata possibile proprio perché si è affermata una certa falsa idea della vita e dell’umanità, l’idea cioè che “l’umanità non ha valore per sé; l’individuo non è (più) un essere intelligente e morale che ha una legge e una sua verità: non è che un astratto paradigma di forze, un’astratta capacità di obbedienza, una forza puramente passiva. Quello che vale è il fine, lo scopo che i gruppi dominanti vogliono realizzare, e verso il quale vogliono avviare l’individuo. L’individuo non è (più così) libertà ma pura passività; e l’umanità è materia nella quale s’imprime da fuori la direzione e la forma che si vuole”
[17].
Il vero rischio per l’individuo è la passività, l’inerzia, la non partecipazione. Il vero rischio è che da padrone del mondo l’uomo si trasformi in un suo ospite; un ospite marginalizzato, robotizzato, asservito ad un potere che si costituisce sempre più lontano dalla realtà esistente concentrando tutta la sua forza nel creare un consenso senza controllo da parte dei cittadini.
L’uso acritico della tecnologia, il diffondersi della virtualità e l’affermarsi di una globalizzazione senza globalismo nascondono, infatti alcuni grandi pericoli: il rischio del dissolvimento della vita nell’apparenza della vita, della riduzione all’immagine e dell’allontanamento dalla realtà (la trasmissione “Il Grande Fratello” rappresenta una tragica metafora di tutto ciò). Una simile condizione dell’uomo contemporaneo comporta conseguenze dirompenti sul piano della politica, intesa come la intendeva Hannah Arendt, che non a caso guarda alla polis greca, come luogo di incontro, di confronto, di partecipazione. Le conseguenze sono la progressiva spoliticizzazione e de-responsabilizzazione del cittadino verso la sfera pubblica, la degenerazione degli istituti rappresentativi, il venir meno della reciprocità democratica che deve caratterizzare il corretto rapporto fra governati e governanti[18]. La conseguenza è la politica abbandonata alla sola logica del potere “che non vede altro che questo, e perciò fa suoi mezzi non solo gli individui, sopprimendoli come ostacoli, ma principi idee verità che vuota di ogni valore e riduce a pure immagini verbali”[19].
Capograssi era consapevole di molti di queste tematiche che sono oggi al centro della riflessione giuridica e politica: “Il pericolo è che invece di prendere la via lunga di portare l’esperienza così automatica com’è ad arricchire la vita spontanea ed intangibile dell’individuo … si voglia portare l’individuo alla vita automatica dell’esperienza, renderlo omogeneo all’automatismo dell’esperienza organizzata; si voglia invece di umanizzare l’esperienza, automatizzare l’individuo … sopprimere, rendere impossibili, spegnere le profonde vocazioni umane dell’individuo, quelle che hanno dato vita a tutte le invenzioni e alla sfere concrete della vita storica, dall’economia alla religione, che sono quelle che ne fanno un essere intelligente morale e libero, fonte di tutte le novità le scoperte e le imprevedibili creazioni della storia”
[20].
Ma Capograssi era altresì consapevole, a differenza di tanti odierni cantori di sciagure, che la crisi contiene elementi di speranza: “E’ necessario avere la follia o la stoltezza di essere persuasi, che ognuno di noi può e perciò deve trasformare il mondo; che ognuno di noi, che uno qualunque di noi può, se riesce a salvare l’umanità in se stesso, a realizzare pienamente l’umanità in sé, a vincere veramente il male, a credere veramente in Dio, può salvare la storia; salverà la storia. La vecchia Europa, in quella parte donchisciottesca di essa, che costituisce veramente la sua grandezza, non è stata altro che questa follia … manteniamoci fedeli a questa follia”
[21].


[1] Cfr. V. FROSINI, Capograssi: la struttura dell’esperienza giuridica, in “Rivista di diritto pubblico”, 1996, p. 593.
[2] Cfr. E. OPOCHER, Giuseppe Capograssi filosofo del nostro tempo, Giuffrè, Milano, 1991, p. 49: “Io credo che Capograssi sia oggi estremamente inattuale ed al tempo stesso sorprendentemente attuale. Può sembrare un paradosso. Ma, in realtà il pensiero di Capograssi è portatore di una testimonianza che costituisce per il nostro tempo una specie di pietra di inciampo. La ‘moralità’ o, se si preferisce, la ‘filosofia’ dei nostri tempi è … lontanissima dalla sua … Lo è nella filosofia che si è sempre più allontanata dalla vita fino a rivendicare e a teorizzare la sua totale estraneità a ciò che la vita comporta ed esprime nell’interiorità della coscienza e che, sul piano morale, sembra addirittura vagheggiare un’etica senza verità. Lo è nella vita che sembra ad ogni livello stritolare sempre più l’individuo e distruggerne i centri vitali a incominciare dalla famiglia, nella morsa dell’automatismo e, quindi, di una alienazione ben più radicale di quella denunciata dal marxismo. Ma questa ‘inattualità’ di Capograssi nasconde una profonda conferma della sua prospettiva …”.
[3] Le opere complete di Giuseppe Capograssi sono raccolte in sette volumi editi dalla casa editrice Giuffrè e curati, i primi sei, da M. D’Addio e E. Vidal, il settimo da F. Mercadante a cui si deve, grazie alla sua dinamica presidenza della Fondazione Capograssi, gran parte del merito per la “riscoperta” del grande filosofo e per la riflessione, anch’essa affascinante, sul Capograssi grande scrittore, come emerge nei Pensieri a Giulia (editi anch’essi da Giuffrè in tre volume curati da G. Lombardi), opera che raccoglie quasi duemila foglietti scritti quotidianamente alla sua fidanzata nel periodo 1918-1921 e che rappresenta il momento essenziale per cogliere il periodo della formazione del giovane Capograssi..
[4] G. CAPOGRASSI, Introduzione alla vita etica, Edizione di “Filosofia”, Torino, 1953, p. II.
[5] S. COTTA, Introduzione a G. CAPOGRASSI, Incertezze sull’individuo, Giuffrè, Milano, 1969, p. IX. Cfr. E. GRAZIANI, Individuo, libertà e stato nella filosofia politica di Giuseppe Capograssi, in G. SORGI (a cura di), Vocabulum iuris, Teramo, 2001.
[6] S. SATTA, Giuseppe Capograssi, in Soliloqui e colloqui di un giurista, p. 415.
[7] Cfr. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in Incertezze sull’individuo, cit., p. 119.
[8] G. CAPOGRASSI, Introduzione alla vita etica, cit., pp. 45-46: “Lo Stato e il diritto mi ricordano che sono qualche altra cosa, oltre a quello che voglio essere … C’è qualche cosa che è più profonda di me. Sono uomo. Vale a dire, sono tutti i fini e tutti gli interessi che fanno umana la vita … Non c’è nessun lavoro intellettuale da fare, nessuna ricerca. C’è soltanto da resistere alle profonde tendenze che tenderebbero a gettarsi, e a fermare le correnti della vita, o nel piacevole o nell’utile o in uno degli altri fini costitutivi dell’umanità della vita e a subordinare tutti gli altri fini a quest’uno; e quindi, riportata l’anima nel proprio dominio, nel dominio di se stessa, lasciarsi vivere secondo le inclinazioni della volontà, che vuole appunto vivere la vita nella totalità e nell’ordine dei suoi interessi e dei suoi fini umani. Perciò la morale è virtù e libertà … L’esperienza morale è proprio l’esperienza nella quale l’uomo vive nella pace della sua natura totalmente spiegata in tutte le sue forze e le sue direzioni”
[9] Cfr. V. FROSINI, Capograssi: la struttura dell’esperienza giuridica, cit., p. 593.
[10] S. SATTA, op. cit., p. 416.
[11] Cfr. E. OPOCHER, op. cit., p. 34 e ss.
[12] Leopardi è molto presente nelle pagine soprattutto giovanili di Capograssi. Cfr., per esempio, G. CAPOGRASSI, Pensieri a Giulia, Giuffrè, Milano, 1978-1981, vol II, nr. 513 e 462, dove Leopardi è definito: “pallido, disperato amante di Dio”, che “morì per aver troppo amato Dio e per non averlo trovato”.
[13] G. CAPOGRASSI, Pensieri a Giulia, cit., nr. 1104.
[14] G. CAPOGRASSI, Su alcuni bisogni dell’individuo contemporaneo, cit., p. 204.
[15] Sul pensiero della Arendt, anche per cogliervi interessanti nessi con la filosofia capograssiana, cfr. T. SERRA, Virtualità e realtà delle istituzioni. Ermeneutica, diritto e politica in Hannah Arendt, Giappichelli, Torino, 1997.
[16] Una emozionata, oltre che autorevole testimonianza, di questo interesse dell’ultimo Capograssi in S. SATTA, op. cit., p. 427: “Giunto alla fine si accorse che questi [eguaglianza, amicizia, speranza] erano i bisogni dell’individuo serio, mentre esiste anche l’uomo frivolo e ha i suoi non meno fondamentali bisogni. Subito gli apparve l’urgenza di studiare con assoluta serietà questi bisogni, e fedele al suo metodo si tuffò nella contemplazione della vita frivole, si mise ad ascoltare alla radio i resoconti delle partite di calcio, si fece portare le riviste a rotocalco, interrogò coloro che vivevano nel mondo, e poiché la frivolezza non è solo in queste cose, ma anche nelle opere apparentemente serie che si presentano come opere di scienza, si mise ad analizzare queste opere…”.
[17] G. CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe, in Incertezze sull’individuo, cit. pp. 4-5.
[18] Cfr. su questi temi T. SERRA, La democrazia redenta. Il cammino senza fine della democrazia, Giappichelli, Torino, 2001 e E. BAGLIONI (a cura di), Ospiti del futuro?, Giappichelli, Torino, 2000.
[19] G. CAPOGRASSI, Considerazioni sullo Stato, in Opere, cit., vol. III, p. 346.
[20] C. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, cit., p. 118.
[21] G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, cit., p. 121. Cfr. V. FROSINI, Un dialogo con Capograssi, in Saggi su Kelsen e Capograssi, Giuffrè, Milano, 1988, che ricorda alcuni frammenti di una delle sue ultime conversazioni con il grande maestro: “Don Chisciotte è ritenuto folle, ma la sua è una santa follia, perché è proprio la follia dei santi; è, cioè, la credenza nell’ideale, la fede, la contraddizione e il paradosso della vita. Don Chisciotte è salvo perché crede; e finché crede, egli è Don Chisciotte, e non un qualunque hidalgo di provincia … Don Chisciotte è in realtà il vero eroe dello spirito, che porta la croce della sua unicità, che è solo con se stesso, anche se scortato da Sancho”.

Da  Alcuni bisogni dell’individuo contemporaneo*,
di Giuseppe Capograssi

III – 6. … La speranza diventa un bisogno, il bisogno che costituisce l’umanità dell’individuo. Questo bisogno della speranza, al quale nessuno pensa nel rumore delle lotte sociali, è proprio il bisogno a cui mettono capo tutti i bisogni, assume i più vari contenuti, prende i segni più diversi, ma è al centro degli sforzi degli individui, quando lottano per le grandi finalità pratiche e politiche, ed è anzi la sola fonte da cui nascono le volontà e le capacità di sacrificio necessarie per queste lotte. E’ la cosa più indispensabile più necessaria allo sforzo umano, la sola che gli dà la capacità di costruire la storia. L’individuo riesce a inventare le nuove forme della vita sociale e storica, riesce a muovere il pigro mondo umano, solo in quanto lotta per il regno di Dio. Se l’anima umana non spera di conseguire il tutto, non fa nulla; solo se spera di avere un premio che supera il relativo della vita, un ‘premio che i desideri avanza’, l’anima umana si sobbarca alle terribili fatiche della vita. Perciò questo bisogno è nascosto in tutti i bisogni di liberazione; è fra tutti il più urgente, se non il più nominato, nel mondo contemporaneo. Questo nostro mondo, che sembra così esteriore, invece proprio per questo bisogno di eguaglianza per cui lotta, per questo bisogno di amicizia e di riposo a cui aspira, proprio perché ha scoperto e tiene fissa e ferma la vita dell’individuo come valore centrale a cui tutti i valori si riportano, proprio per questo è tormentato e consolato da un bisogno ardente, sebbene indeterminato, di speranza. Sotto i più vari nomi e le più varie forme, aspira all’assoluto, e tutto il suo lottare è un lottare per essere liberato da tutte le condizioni che impediscono alla vita di vivere, ed un invocare, giunto al confine del relativo, per essere liberato dal relativo. E questa è la immensa superiorità del nostro secolo. Forse perché grandi catastrofi ci hanno mostrato in proporzioni gigantesche le capacità di male di dolore di morte di cui l’umanità dispone, stiamo a guardare con le nostre vite dolorose, ad aspettare ad invocare una liberazione che ci salvi dall’inferno, che abbiamo sperimentato e temiamo nuovamente di sperimentare. Guardiamo alla storia e speriamo nel futuro. Ma questo futuro, nel quale grandi masse di individui contemporanei sperano, è un futuro in cui le miserie della vita e della storia sono redente, vale a dire è un futuro che non è più tempo, ma è appunto un tempo redento, per così dire, dal tempo. Certo è uno strano sperare, uno sperare che il tempo non sia più tempo ma sia sempre tempo; è una delle più profonde e più feconde irrazionalità della nostra epoca. Ma è proprio qui che il bisogno di speranza si vede, si può dure, ad occhio nudo. Per condurre la battaglia della rivoluzione l’individuo ha bisogno di sperare nella liberazione assoluta: che alla fine tutta questa miseria questo dolore questa ingiustizia finiranno. Ha bisogno di sperare proprio nell’assoluto. Non importa (ai fini di questo discorso, ben inteso, perché invece importa moltissimo, anzi solo questo importa!), che non dia a questo suo sperare nell’assoluto il vero termine a cui esso mira e porta, Dio … In questa nostra epoca di pericoli di morte e di morte, abbondano i momenti pascaliani, in cui l’individuo è posto di fronte alla necessità di darsi ragione del suo sacrificio, e quindi del mistero del suo destino. Nella raccolta delle lettere dei condannati a morte della resistenza che si leggono con la riverenza trepida che si ha verso le cose sacre, si vede che questi individui muoiono nella speranza, che il loro sacrificio non sarà invano, che l’ideale pel quale si sacrificano si realizzerà. Muoiono, vale a dire, nella fede di una profonda e assoluta giustizia che regge la vita: che il sacrificio sarà compensato, che il dolore sarà giustificato, perché l’ideale si realizzerà, vale a dire che il relativo sarà vinto dall’assoluto e si trasformerà nell’assoluta giustizia. Tutto proiettato nel futuro, nel tempo; ma è evidente che questo non è più il tempo della storia … ma è un altro tempo, un’altra durata un’altra vita che l’uomo  non può darsi, ma nella quale spera, e perché spera si sacrifica e muore. Qui – sia pure nel povero linguaggio umano cioè nel linguaggio dei vari e poveri miti terrestri con i quali gli uomini che ancora non riescono a nominare Dio, si rappresentano, rappresentano nella loro sete di assoluto, Dio – qui è chiaro che il desiderio o bisogno della speranza arriva fino alla certezza e affida a questa certezza la vita stessa offerta in olocausto. Qui appunto il bisogno dell’ultima liberazione, la liberazione del tempo, appare nella luce più pura.

IV – Perciò tre sono i bisogni costitutivi dell’individuo contemporaneo: il bisogno dell’eguaglianza, il bisogno dell’amicizia, il bisogno della speranza. Tutti e tre i bisogni costituiscono il contenuto concreto e pratico, da cui nascono tutti i movimenti contemporanei, e determinano il contenuto dell’idea di libertà, che l’individuo contemporaneo ha nell’animo, e dell’idea di giustizia che egli vorrebbe fosse realizzata nei fatti. Come sempre libertà e giustizia si concretano nelle coscienze secondo le profonde esigenze e i profondi bisogni che queste avvertono nello slancio verso il proprio destino. La libertà dell’individuo contemporaneo consiste nell’essere posto in condizione di appagare questi tre bisogni; l’individuo è veramente libero, se riesce a crearsi le condizioni di appagare questi tre bisogni. E il mondo che i suoi sforzi costruiscono, è giusto, se è costruito in modo che questi tre bisogni possano essere appagati. La libertà per essere libera ha bisogno di costruirsi un mondo nel quale questi tre bisogni siano appagati, vale a dire un mondo giusto; il mondo per essere giusto deve essere costruito in modo che i tre bisogni possano essere appagati, vale a dire deve essere un mondo libero. Libertà e giustizia acquistano un contenuto concreto, conforme e correlativo al valore centrale scoperto nella vita dell’individuo, nelle sue condizioni elementari e fondamentali; e perciò si identificano con l’appagamento dei tre bisogni.

1. Questi bisogni si distinguono – tutto è necessario sia distinto perché possa essere espresso – ma nascono l’uno dall’altro, e in sostanza sono un solo profondo bisogno, che sorregge tutta la vita e la storia dell’individuo, e la guida di fine in fine, e dà al suo sforzo il contenuto e i piani di tutto il sistema dei suoi fini. Quest’unico bisogno caratterizza l’umanità dell’individuo, è quello per cui l’individuo è uomo: in ultima analisi il bisogno incessante di superare se stesso, e perciò di non accettare il già fatto, di lavorare per modificarlo, di non accettare i dati, e quindi costruire ed elaborare un’altra nuova realtà, la quale supera e trasforma i dati stessi e la sua stessa natura. Poiché questi tre bisogni sono un solo profondo bisogno … essi sono tre tappe e momenti di uno stesso slancio, che costituisce tutta la vita umana dell’individuo. E perciò essi non si possono dividere separare staccare. Ogni tentativo di staccarli è un tentativo che va contro la natura, e che perciò minaccia di soffocare e tagliare lo slancio di cui ogni bisogno non è che un momento e una tappa. Ogni tentativo di fermarsi a uno dei tre bisogni e di combattere gli altri a favore di uno, è un vero tentativo di distruzione, che la vita fa di se stessa; un vero mezzo per impedire alla vita di vivere secondo la sua piena vocazione umana. E tuttavia la tentazione di fermarsi a uno dei tre bisogni è sempre presente ed attiva. La tentazione nasce dall’errore di credere che, fermandosi, concentrando sforzi e mezzi all’unico fine di appagare uno dei tre bisogni, questo sia veramente assicurato, si possa arrivare a una sua plenaria soddisfazione e quindi la vita sia salvata.

2. Fermarsi al bisogno di eguaglianza è la tentazione più forte. Grandi esperienze cercano di fermarsi a questo, pretendendo di fermarsi a questo. Ma è un’illusione. Sicurezza sociale, posizioni eguali di partenza, libero e pieno accesso a tutte le occupazioni della vita non sono cose che hanno il loro fine in se stesse; fa parte della loro struttura, della struttura stessa del loro modo di essere, il richiedere il compimento, cioè arrivare alla vita piena dell’individuo, che si tratta appunto di assicurare, perché possa realizzarsi nelle effettive capacità che essa ha in sé. E questa vita non ritrova se stessa e non si compie in se stessa, se non si volge nel disinteresse, non si purifica nell’amicizia, se non si appaga nella speranza di una vera liberazione dal male e dalla morte, vale a dire se non arriva a conoscere se stessa nella sua vera essenza profonda di vita umana, capace di Dio, che avrà in Dio il suo compimento. Se lo sforzo per stabilire un mondo di eguaglianza mette capo al dato immodificabile di relatività e mortalità, a cui si riduce la vita individuale, e si ferma, impedendo si vada oltre, anzi pretendendo di insegnare che non si va oltre, pretendendo di insegnare la disperazione di uscire dal relativo come ultima parola, allora la lotta per l’eguaglianza diventa la lotta per la costruzione di un mondo in cui trovano la loro ordinata convivenza gli innumerevoli egoismi degli individui, i quali giorno per giorno dopo aver lavorato si rinchiudono ciascuno nel proprio far niente (che è per di più, un faticoso far niente!), e così aspettano traverso la cenere dei giorni la morte, che mette fine all’inutile giuoco. Ma in questo caso la lotta per l’eguaglianza perde tutto il suo valore, cessa di essere il fermento che mette la storia in condizioni di novità, e che ridà continuamente alla società il senso del suo dovere inesauribile di fare uomo l’individuo; e si trasforma in un grande sforzo per arrivare ad una società paralizzatasi nell’ordine istintivo ed esteriore delle società animali. E naturalmente l’individuo stesso perde forze per questa lotta, non trova più prospettive che si aprano a lui individualmente, a lui individuo, e perciò i motivi stessi della sua azione gli vengono a mancare, e ne nasce la inevitabile e improrogabile necessità di ordinamenti rigidamente coattivi, che lo costringono a lavorare per un mondo che in ultima analisi così mutilato è estraneo al suo interesse più profondo. In ultima analisi la lotta per l’eguaglianza, staccata da tutto il sistema degli slanci e dei fini che sono la vocazione dell’individuo, diventa il mezzo per nascondere all’individuo la vera condizione della sua vita, diventa il grande diversivo per distogliere l’individuo dalla conoscenza autentica di se stesso e della sua infelicità esistenziale. La rivoluzione cioè diventa, secondo la decisiva e semplice parola di Simone Weil, il vero oppio dei popoli.

3. Ma in ultima analisi ognuno di questi bisogni staccato, posto come solo, fatto servire a non sentire gli altri, ad attutire l’esigenza degli altri, costituisce un mezzo di nascondere all’individuo la sua vita e il suo destino, un vero e proprio narcotico per l’individuo. In ultima analisi qualunque tentativo di staccare l’un bisogno dall’altro, di tagliare lo slancio che costituisce la unità e la forza dei tre bisogni, è un tentativo di negare i tre bisogni, di rendere impossibile il compiersi e realizzarsi di un mondo umano nella storia. Il bisogno della speranza è il bisogno dell’assoluto e del rapporto della vita individuale con l’assoluto – portato sino all’ultimo della sua spinta vitale. Qui l’illusione può nascere, che questo rapporto possa consumarsi in se stesso e quindi dispensare per così dire dagli altri bisogni, e soprattutto dal bisogno e dalla lotta per l’eguaglianza. Può nascere l’illusione, che una volta arrivato a mettersi in rapporto con l’assoluto e a confidare in esso, possa l’individuo racchiudersi in questa certezza, e prescindere da tutto il resto. Ma se il bisogno della speranza c’è, è questa l’illusione più facile a dissiparsi. Se il bisogno della speranza c’è, se l’individuo sente il bisogno di invocare l’aiuto che superi la sua condizione umana, cioè se l’individuo si è accorto alla fine dell’esistenza di Dio, la radicale eguaglianza degli individui gli appare netta, netta la radicale eguaglianza di valore dei loro destini dinanzi a Dio; e perciò solo sente, avverte lo scandalo e il peccato di un mondo della vita associata, nel quale queste vite eguali nella infelicità e nella vocazione abbiano diseguali condizioni di esistenza sociale, e per alcune per molte per troppe la radicale infelicità della vita è aggravata da condizioni e ragioni particolari e artificiali di infelicità, che la collaborazione e la volontà di tutti possono far scomparire.

E tuttavia il pericolo vero non è che si stacchino i tre bisogni. Perché alla fine se questi bisogni sono vissuti per quello che sono, necessariamente l’uno richiama l’altro; ci potranno essere perplessità e incertezze, tentativi di falsare il significato e lo slancio dell’uno o dell’altro, ma alla fine l’esigenza profonda della vita prenderà il sopravvento e l’un bisogno richiamerà l’altro. Il vero pericolo è che l’individuo contemporaneo riesca a non sentire questi bisogni; che si perda nella futilità, e smarrisca o stemperi la sua volontà di vita nella frivolezza, nelle mille frivolezze di cui la vita contemporanea è ripiena. Il bisogno di eguaglianza può perdersi in un desiderio delle comodità esteriori della vita, dei mille inutili oggetti, che l’industria moderna getta continuamente sul mercato sempre aperto della vita futile. Il bisogno di riposo può perdersi in una vera e propria inerzia di pigrizia e di chiacchiera; il bisogno di speranza può perdersi nell’automatismo soddisfatto di adempimenti esteriori, che impedisce il rapporto con Dio e conseguentemente spegne nel cuore ogni carità verso gli altri. Futilità: perdere ogni senso del destino, del valore e del significato della vita; prendere la vita come cosa frivola come un insieme di cose frivole. Questo è il vero pericolo della nostra epoca; il moltiplicarsi delle cose inutili, degli oggetti di cui si può fare a meno, ma che nella futilità generale diventano necessari; la possibilità tecnica di spettacoli di ogni genere e tutti esteriori e frivoli portati a disposizione di ognuno, per cui tutto diventa spettacolo esteriore e frivolo; i giuochi di ogni genere, con i conseguenti puerili agonismi, diventati interesse centrale della vita, quasi si direbbe al fine di dimenticarsi della vita; questi e altri fatti rendono sempre maggiore il pericolo. Il quale pericolo è aggravato fortemente dai tentativi che i vari regimi fanno, i quali per poter più facilmente governare le masse si sforzano di distrarre e stordire nel futile l’individuo.
In sostanza tutta la incertezza di questa epoca si può dire è in questa coesistenza fra i tre bisogni da una parte – che spingono l’individuo incessantemente a scoprire vivendola la tragica serietà della vita e quindi a lavorare incessantemente alle nuove costruzioni della storia – e dall’altra la inclinazione verso la futilità, che spinge l’individuo a disperdersi nella sensazione immediata, a perdere il pensiero e il ricordo di se stesso e del suo destino. La coesistenza di queste due spinte o anime è quello che non permette di dir nulla sopra l’avvenire della nostra epoca. E perciò tutto il discorso finora fatto si potrebbe e si dovrebbe rovesciare. Si dovrebbe fare l’analisi dell’individuo della vita frivola come si è tentato di fare lo schema dell’individuo della vita seria. Si potrebbe e si dovrebbe fare. Ma la frivolezza contemporanea è argomento talmente serio e vasto che non può essere trattato in iscorcio. Merita un lungo e serissimo discorso a parte. Al quale il presente potrebbe servire non si sa bene se di introduzione o di conclusione.


* Il brano presentato, riprodotto fedelmente, anche nel particolarissmo uso della punteggiatura, è tratto dalla raccolta di saggi Incertezze sull’individuo, Giuffrè, Milano, 1969.