Del Populismo

Riccardo Misasi

 

Storia di un Libero Comune

 

Rubbettino Editore   

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Come chi possiede il genio della perspicacia e della riflessione, fra l’altro mediata da cultura solida e vissuta, Riccardo Misasi, nella ultima parte del suo libro “ Storia di un libero Comune – Dall’esperienza antica di Orvieto – provocazioni e pensieri di oggi”  si domanda sull’espansione dello Stato Centrale: il riformismo, il suo esaurimento e la crisi della culture politiche, per poi proseguire sui temi che sembrano essere stati approfonditi non già nel 1999, ma oggi a 13 anni di distanza e quindi quesiti attualissimi che,

se riformulati, darebbero la giusta luce allo sforzo metodologico per ridefinire gli  argomenti.

L’insorgenza dei particolarismi, la novità e l’importanza del fenomeno della Lega: i limiti i rischi e le ragioni. La elefantiasi della spesa pubblica, così d’attualità, la crisi del Welfare.

 

E poi sulla Inevitabilità ed inadeguatezza del federalismo, la comunità delle comunità, i dubbi sulla privatizzazione, Impresa e democrazia, punto cruciale della riflessione di Misasi.

 

A nessuno appaia retorica, ma tali spunti di riflessione ed altri contenuti nello stesso saggio, meritano l’apertura di un dibattito serio, non occasionale, per indagare ciò che potrebbe essere la nostra società ed il nostro futuro di cittadini.

Franco Petramala 

 

 

I. Conquiste del Libero Comune e poi della Rivoluzione Francese - Il diverso modello istituzionale - Lo Stato nazionale, centrale ed accentratore - Coerenza con la matrice illuminista - L'espansione dello Stato centrale: il riformismo - Usuo esaurimento e la crisi delle culture politiche.
Nel corso del racconto dei fatti salienti della Storia di Orvieto, interpolando alcune considerazioni generali, sono stati sottolineati in particolare i seguenti punti:
A) il grande valore innovativo dello spirito guelfo che animò la nascita e la vita dei Liberi Comuni e, nel farsi della loro esperienza, anticipò il superamento del Feudalesimo, l'avvento della borghesia e, in certo modo, la stessa organizzazione democratica dell'ordinamento;
B) i limiti e le insufficienze di quella esperienza, che non riuscì, o non potè riuscire, ad essere collante sufficiente a raccordare, coordinare ed, in qualche modo, unificare le varie realtà comunali in un assetto confederativo superiore, capace di difenderle all'esterno e di evitare, all'interno, quell'esplodere delle rivalità, delle ambizioni e delle lotte, fra di loro e dentro di loro, che portò fatalmente all'indebolimento e poi
alla fine della loro realtà;
C) il permanere, anche dopo e nonostante la perdita dell'indipendenza, di un certo, limitato spazio di autonomia e di una significativa vitalità culturale ed artistica, all'interno dello Stato della Chiesa; la perdita definitiva di questo residuo spazio di autonomia o, più propriamente, la sua riduzione a compiti di semplice decentramento amministrativo, con l'avvento dello Stato Unitario.
Ciò per una ragione contingente e comprensibile, perché dettata dal bisogno di unificare realtà fin troppo diverse e, spesso, eterogenee; ma anche per una ragione più profonda, attinente al modello culturale proprio di quello Stato.
Con questa ultima sintetica affermazione, anzi, si è sostanzialmente chiuso il racconto dei fatti orvietani. Conviene allora partire da qui, dalla spiegazione di questa affermazione, per tracciare le considerazioni conclusive.
L'incapacità o l'impossibilità dei Liberi Comuni italiani di consolidare la propria esperienza, federandosi tra di loro stabilmente, al di là delle episodiche leghe difensive, fece sì che le radicali trasformazioni in essa contenute non avessero seguito, né forza propulsiva e restassero perciò un episodio anticipatore, circoscritto tuttavia nello spazio e, purtroppo, anche nel tempo. Bisognò attendere la fine del XVIII secolo, cioè più di cinque secoli, perché quelle stesse profonde innovazioni si
riproponessero clamorosamente nella storia e vi facessero definitivo ingresso con la Rivoluzione Francese.
Questa tuttavia ereditò uno schema di ordinamento statuale già consolidato, nel corso del tempo, ad opera della Monarchia Assoluta di Francia: quello di uno Stato centrale, forte ed accentratore. La Rivoluzione in sé e nei suoi esiti, non travolse quello schema: lo conservò ed anzi Io assunse come strumento idoneo all'attuazione dei propri princìpi ed alla realizzazione delle proprie conquiste.

Poche volte nella storia i protagonisti ebbero una così chiara e quasi epica percezione dell'importanza di quanto andavano compiendo, come la ebbero quelli della Rivoluzione Francese. Questo diede loro a volte un'eccezionale efficacia di sintesi oratoria. Con questa lapidaria capacità di sintesi del progetto e dell'utopia rivoluzionari, Saint-Just pronunciò la frase: la felicità è una idea nuova in Europa. Saint-Just, però, fu anche colui che più si battè contro le vaghe suggestioni federalistiche della Gironda e propugnò, anche al di sopra ed anzi contro i partiti, l'idea della necessaria concentrazione del Potere, meglio espressa nei suoi Fragmentes ainstitutions republicaines.

Si comprende allora come, a contenere e rappresentare i princìpi e le conquiste rivoluzionari, potesse benissimo servire e venisse anzi utilizzato quello stesso involucro di un ordinamento centrale ed accentratore che, costruito dalla Monarchia Assoluta, fu poi ulteriormente consolidato e naturalmente perfezionato dal Bonapartismo. C'era e se ne ebbe chiara consapevolezza, non solo una piena compatibilità tra le idee, le radicali innovazioni rivoluzionarie ed il modello di un forte Stato centrale; ma c'era anche una sostanziale coerenza di tale modello con la matrice razionalista ed illuminista della Rivoluzione e con l'utopia, largamente condivisa, di costruzione, finalmente nella storia, di condizioni di felicità. (Non fu infatti il solo Saint-Just a parlarne; ma, all'interno di discorsi molto meno sintetici, questa parola, felicità, attraversa tutto il periodo rivoluzionario e la si ritrova un po' dovunque sia nei dibattiti, sia negli scritti).

Si può anzi riconoscere che questo coniugarsi dell'utopia e del razionalismo rivoluzionari con l'idea ed il modello di un forte Stato centrale, costituì già in nuce le premesse possibili degli esiti, cui pervenne la successiva elaborazione culturale del pensiero moderno con l'hegelismo ed i suoi epigoni, derivando, direttamente dal primo, la concezione dello Stato Etico e, dall'hegelismo di sinistra, che vi approdò con Engels e con Marx, quella dello Stato Collettivista1.

Qui però interessa sottolineare che la fine del feudalesimo, l'avvento della borghesia, il profondo mutamento dei rapporti di potere, le grandi idee di libertà e di eguaglianza, tutti cioè i fecondi risultati della Rivoluzione Francese, si sono realizzati in Europa secondo e dentro un certo modello di ordinamento, dando vita a quello Stato moderno che, poi, anche in Italia, ispirò l'esito finale del Risorgimento e l'organizzazione dello Stato Unitario nazionale.

In questo tipo di Stato la garanzia contro i rischi di assolutismo, secondo la lezione del Montesquieu, è fornita dalla distinzione verticale delle tre funzioni fondamentali del medesimo Stato, articolate nei tre diversi poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Così articolato al suo interno, questo Stato complessivamente si pone come il garante ed il tutore esclusivo dei bisogni e degli interessi dei singoli cittadini, componenti la Nazione. Con la sua forte amministrazione distribuita anche perifericamente, esso è in rapporto diretto con l'individuo; poco o nessuno spazio consente alle comunità intermedie, alle quali non concede alcuna reale autonomia, ma solo un certo decentramento di funzioni amministrative. Le Comunità, le formazioni spontanee ed originarie di autonomia non hanno, di per sé, valore. Il valore è nello Stato ed è esso che solo può e deve assicurare l'uguale tutela dei cittadini. Ecco perché, allora, lo Stato Unitario italiano, scaturito dal Risorgimento, ebbe non solo un motivo contingente, ma una ragione culturale intrinseca che lo portò a non riconoscere autentico spazio alle autonomie.

Queste linee essenziali e portanti del modello statuale non sono state scalfite nemmeno successivamente. La storia ha poi, e fino ai nostri giorni, conosciuto altre straordinarie innovazioni e grandi conquiste civili e sociali, intervenute sotto la spinta delle forze politiche riformatrici.

Ma anche il riformismo, qualunque matrice esso avesse, non ha cambiato il modello ed, anzi, lo ha ulteriormente rafforzato e, per così dire, ingrandito.

Le riforme infatti hanno significato e sono venute sempre più realizzando una grandiosa espansione della tutela dei bisogni, allargandola via via a nuove esigenze, prima ignorate ed escluse. Ne è derivata pertanto una notevole espansione dei compiti dello Stato.

Questo, come si sa, limitava inizialmente il suo ruolo alla soddisfazione di alcuni bisogni primari ed essenziali, cui corrispondevano i compiti propri della politica estera ed interna, dell'ordine pubblico, dell'amministrazione della giustizia, delle grandi opere pubbliche, del prelievo fiscale delle risorse e della loro utilizzazione. Gradualmente poi è venuto estendendo il proprio impegno alla prestazione, anzi anche all'organizzazione della prestazione, di tutta una serie di grandi servizi, da quello scolastico a quello previdenziale, a quello sanitario, a quello dell'erogazione

dell'energia, a quello dell'assistenza, sotto varie forme ed in varie guise.

Con ciò stesso lo Stato è venuto esercitando già un'influenza crescente nella vita economica, in quanto portatore di una forte domanda pubblica e detentore di una rilevante offerta. Ma ha poi, sempre più, svolto un ruolo economico diretto, sia assumendo perfino una propria veste imprenditoriale, sia intervenendo con politiche di incentivazione e di programmazione dello sviluppo; sia stabilendo forme particolari di assistenza nei momenti, e/o per i settori di crisi, con le casse integrazioni, con i finanziamenti alle innovazioni tecnologiche ed alla ristrutturazione industriale, eccetera, sia dando vita ad un'ampia innovatrice legislazione sociale del lavoro.

lutto questo non ha significato un superamento del capitalismo. Né ha tuttavia segnato una profonda trasformazione, attraverso il passaggio dal vecchio capitalismo, che, nell'assoluto prevalere di una logica brutale del profitto, legittimava l'accusa dello sfruttamento degli operai, ad un nuovo capitalismo o neo-capitalismo, con il quale il riformismo stesso si è posto e si pone in un rapporto intrecciato e reciproco di causa e di effetto. Tutto l'insieme di questi risultati ha significato un enorme progresso civile ed un generale miglioramento delle condizioni di vita, anche se ha

quasi fatalmente comportato una corrispondente elefantiasi della macchina amministrativa e la nascita di mastodonti burocratici, ai quali si sono spesso collegate lentezze ed inefficienze che, oggi, sono particolarmente avvertiti. Tuttavia la comprensibile ed anzi giusta esigenza di revisioni incisive, che assicurino snellimento, efficienza e rapidità, non inficia il valore delle grandi conquiste del riformismo, né può rimettere in discussione i risultati raggiunti con quella espansione della tutela dei bisogni, che è poi la sostanza di quello che si chiama Welfare State.

Ciò va detto e ribadito, ma bisogna anche aver coscienza che tutto questo è ormai passato, sta dietro le nostre spalle, è un risultato già raggiunto.

Nel quale, probabilmente, si è ormai esaurita la forza propulsiva del riformismo tradizionale. Bisogna difenderlo e conservarlo. Ciò è necessario e tuttavia non sufficiente: nessuna prospettiva si apre, nessun futuro si costruisce solo conservando il passato.

L'esaurimento del vecchio riformismo inoltre si inscrive dentro, ed anzi definitivamente esprime, una più generale crisi delle culture politiche tradizionali.

E in crisi quella del collettivismo, anch'essa consumata dalla storia, e francamente appare improbabile una sua effettiva riproponibilità, mirata a raggiungere cioè, e capace di ottenere, il consenso maggioritario necessario a realizzarne il progetto. Altrettanto inadeguata appare l'idea di chi ritiene eventualmente vincente e cariche di futuro le culture del neo-capitalismo e del liberalismo. 11 primo, come si è appena detto, è in gran parte l'altra faccia del riformismo e, come questo, nei propri lineamenti essenziali, costituisce un dato acquisito o, se si vuole, un punto di

partenza, che, tuttavia, per ciò stesso, non può essere anche un punto di arrivo. Il liberalismo, nei suoi valori portanti, rappresenta un patrimonio ineludibile ed alto, ma pressoché comune, generalmente condiviso.

Esso va sempre conservato e difeso, specie quando ritornano le insidie, che sempre affiorano nei momenti di inquietudine, di confusione, di sbandamento, che la storia purtroppo conosce. Ma questo significa che il liberalismo è un grande cuore antico da salvaguardare, non è e non può essere il nuovo da inventare. Che resta allora? Sembra proprio di vivere uno di quei diffìcili momenti di transizione nei quali l'assenza di idee nuove, di nuove ed adeguate culture politiche, e conseguentemente di autentiche tensioni morali, alimenta un clima di confusione, di incertezza, di insicurezza, nel quale facilmente emergono spinte irrazionali, tendenze perfino violente, bagliori, a volte cupi, di antiche suggestioni, nostalgie, e più che nostalgie, di improponibili ritorni indietro. Ciò in Italia e, forse, ancor più in Europa. Di fronte a ciò la difesa delle conquiste realizzate è una necessità; ma non basta.

Quando mancano culture politiche nuove e, quasi per forza di inerzia, sopravvivono stancamente le vecchie, gii interessi, le domande, le  aspirazioni presenti nella società ed emergenti dalle sue trasformazioni, vengono a mancare di un punto di riferimento, perché manca la capacità di leggere e di interpretare i fenomeni sociali, il loro movimento, la diversità di istanze che lo animano. Manca l'ascolto del mormorio della storia. Manca l'attenzione ed il rispetto delle diversità ed insieme la forza unificante di una sintesi più alta, di un progetto politico complessivo, in cui tutte possano in qualche modo riconoscersi.

Non a caso i movimenti che hanno rivelato vivacità ed anche vitalità, negli ultimi decenni, sono stati quelli monotematici, come tipicamente sono stati i movimenti ambientalisti. Movimenti portatori più di una denuncia, che non di una proposta o, meglio, portatori solo di proposte parziali. Non se ne può negare l'importanza; se ne può tuttavia cogliere la limitatezza.

Ma l'assenza di risposte politiche complessive ed adeguate determina inevitabilmente, a poco a poco, una condizione crescente di insoddisfazione e di malessere. Privi della necessaria mediazione politica, gli interessi tendono a ripiegare su se stessi e ad arroccarsi nella difesa egoistica,corporativa o localistica del proprio partìculare. Si attenua fin quasi a scomparire, la consapevolezza delle possibili ragioni di unità e di solidarietà.

Nascono e si alimentano spinte disgregatrici. Già di per sé, dunque, la crisi delle culture politiche diventa ragione di crisi degli stessi assetti istituzionali precedenti.

II. Il malessere in Italia ed in Europa - La trasformazione del quadro internazionale

- l'insorgenza dei particolarismi - La novità e l'importanza del fenomeno della Lega - Limiti, rischi e ragioni - La crisi del modello dello Stato nazionale moderno è irreversibile? - Elefantiasi della spesa pubblica - La perdita delle identità nell'attuale Welfare State Necessità del riordino dello stesso e delle riforme istituzionali.

Contribuiscono, però, a generare la condizione di malessere, anche altri fattori che si intrecciano con la crisi culturale, in un reciproco rapporto di interdipendenza. Innanzi tutto c'è da considerare le conseguenze indotte dalle radicali modifiche intervenute nel quadro internazionale.

La caduta della diga o del muro, che divideva l'Occidente dalla realtà della Unione Sovietica e del Comunismo, è stata certamente un fatto straordinariamente positivo, ma altrettanto straordinariamente carico di effetti pressoché sconvolgenti. Essa infatti ha significato anche la fine di un determinato equilibrio, certo precario, ma in qualche modo definito, conosciuto e si vorrebbe dire paradossalmente rassicurante.

Quel muro, per quasi cinquant'anni, almeno per l'Europa occidentale, era stato sì una barriera, ma anche una difesa e quasi una protezione.

La sua caduta ha determinato ad Est, con il crollo della ideologia, pur sempre unificante, del Comunismo, il rapido disgregarsi del vecchio assetto, la nascita di nuovi Stati indipendenti, l'insorgere delle varie etnie, l'esplodere di antichi e non sopiti contrasti, diversità, perfino odi, quasi razziali, che hanno, come nell'ex Jugoslavia, improvvisamente fatto riemergere violenze, ferocie e barbarie da primo Medioevo.

Ad Ovest quella caduta ha determinato qualcosa di diverso, ma non del tutto dissimile. Si è diffusa l'impressione di una qualche incertezza, di una qualche insicurezza. È affiorato un timore nuovo e, forse, insieme, antico, di possibili incombenti minacce alla propria raggiunta condizione di relativa tranquillità e benessere. Forse la stessa riunifìcazione della Germania ha stimolato antichi sospetti per il ricostituirsi di una grande, compatta potenza centrale. Ancor di più, probabilmente, ha alimentato quel timore e quella impressione di minaccia la mobilità della situazione più ad Est. L'ansia cioè, di tutte le popolazioni, dei Paesi dell'Est europeo, di muoversi verso il benessere, di conoscerlo finalmente e di parteciparvi, sommata alla crescente analoga tendenza delle popolazioni del Sud ed, in specie, del Mediterraneo. Si potrebbe quasi dire che è come se fosse riaffiorata,

quasi nel subconscio, una paura atavica, una sorta di rigurgito dell'ancestrale ed angosciosa memoria storica di antiche massicce migrazioni di popoli, di invasioni barbariche e saracene, da Est e da Sud.

È abbastanza comprensibile allora come siano potute insorgere spinte, tendenze, addirittura movimenti di sapore xenofobo, se non del tutto razzistico, e come si sia ulteriormente accentuato quell'atteggiamento di arroccamento, di immediata ed istintiva difesa della propria condizione e dei propri circoscritti interessi. Altrettanto spiegabile è la conseguente perdita delle ragioni del legame e della solidarietà con gli altri, anche con i vicini, considerati anch'essi estranei se non addirittura nemici: quasi

palla di piombo al piede o motivo di maggior debolezza, o causa di spreco di risorse, che si ritengono invece necessarie a consolidare e a difendere la propria condizione.

Non è casuale infatti, che l'inquietudine, l'insofferenza, l'emergere di spinte disgregatrici, si siano manifestati proprio nelle zone di maggior benessere, dove emerge anche una qualche tendenza a ritornare indietro nella storia. La ed. Padania somiglia troppo al Lombardo-Veneto, per non dare questa impressione. Ma, forse, a ben guardare, questo percorso a ritroso va ben oltre. È un ergersi di mura e di torri merlate, un bandire crociate e, perciò, anche qui, in Occidente, un qualche ritorno di Medioevo.

Il fenomeno di gran lunga più nuovo e, anzi, l'unico veramente nuovo, la spia, comunque, che maggiormente illumina ed in buona parte esprime, questa condizione di malessere, di inquietudine e di insoddisfazione, è stato, in Italia, la Lega. Ma per quanto possa apparire strano, la Lega, senza né perdere il consenso, né cadere nel ridicolo, in tante sue manifestazioni esteriori, si è proprio vestita di Medioevo. Pontida, i giuramenti, il Carroccio, le calzemaglie, gli elmi, gli scudi, se sono stati una manifestazione di superficie, non hanno tuttavia costituito un semplice fatto di folklore. Sono stati il simbolo visibile di una reazione istintiva, immediata e medievale ad una medievale paura.

Sotto le manifestazioni esteriori però, c'è probabilmente un certo qual rifiuto o almeno una qualche avvertenza dei limiti e della inadeguatezza dello Stato moderno, del suo modello, così come si è venuto costruendo ed espandendo con le conquiste del riformismo.

In questo senso la Lega ha rappresentato il fenomeno più autentico ed interessante, per denunciare e insieme cogliere le ragioni intime della condizione di crisi che si sta vivendo, e l'intreccio di cause interne ed esterne che l'hanno determinata: l'esaurirsi delle culture politiche tradizionali e le radicali trasformazioni del contesto internazionale. Il fenomeno Lega perciò andava probabilmente ed andrebbe letto con molta più attenzione di quanto non ne segnino il semplice ed aprioristico rifiuto, la contrapposizione netta 0, viceversa, l'inseguimento acritico sul terreno delle rivendicazioni espresse.

Fermandosi alle manifestazioni di superficie si potrebbe anche evidenziare, ed in qualche modo con qualche strana notizia di stampa lo si è, recentemente, tentato, un netto contrasto tra i richiami storici, cui la Lega si è rifatta e le sue concrete suggestioni politiche. Pontida, il Carroccio, l'antica "Lega lombarda" nacquero e si caratterizzarono, come si è visto, contro l'Impero tedesco ed il Barbarossa, saldandosi invece idealmente con Roma ed il papato. La posizione della Lega sembrerebbe viceversa quasi esattamente opposta: rifiuto polemico di Roma ed aggancio con l'impero, cioè con la realtà forte dell'Europa centrale, di cui si ritiene di poter costituire una delle zone economicamente più vitali e floride, rispetto alla quale il resto dell'Italia verrebbe considerato come un peso, una ragione di ritardo e di debolezza, una realtà, comunque, diversa ed eterogenea. In questo senso si potrebbe perfino dire che la Lega sarebbe oggi ghibellina, stimolando immediatamente, di converso, la consapevolezza della necessità di riproporre ed attualizzare l'antico spirito guelfo di Alberto di Glissano. Sarebbe però una notazione superficiale ed impropria. Eventuali interessi particolari, che nutrissero calcoli e disegni di quel tipo avrebbero poco a che fare con la natura intrinseca del fenomeno, che è tutta nel rifiuto dello Stato centrale e centralizzato e nella attenzione e difesa verso  e peculiarità e l'identità propria di comunità e territori.

Perciò al di là del facile gioco di immagini e di parole, è diffìcile negare il carattere popolare del fenomeno ed il significativo radicamento della Lega nella realtà di importanti e vaste zone. Per alcuni aspetti essa avrebbe potuto configurarsi e, chissà, forse lo potrebbe ancora, come una forza popolare di tipo bavarese o, per altro verso, catalano. Non si può, allora, non fare i conti con questa novità reale. Del resto, già sul terreno della unificazione monetaria dell'Europa, l'esistenza stessa della Lega ha rappresentato oggettivamente una spinta forte per superare resistenze, difficoltà,

abitudini e fare accettare, dove forse, altrimenti, sarebbe stato meno facile, politiche di maggior rigore per non mancare a quell'appuntamento con l'Europa, rispetto al quale un fallimento od anche solo un rinvio avrebbe acquistato, o è parso che avrebbe acquistato, il significato di una minaccia grave alla stessa tenuta unitaria dell'Italia.

Certo ogni fatto politico che esprime un malessere autentico ed insorge per contestare l'assetto preesistente, ha in sé il rischio di possibili degenerazioni ed esasperazioni. Per certi aspetti, è stato spesso cosi nella storia. Il massimalismo, antico e ritornante male storico del socialismo italiano, tuttavia, non inficiava l'importanza e la ragion d'essere di quel movimento. Non si può rispondere al nuovo che emerge, anche se confusamente, con l'indifferenza, né con l'illusione di isolarlo e circoscriverlo, né con la repressione. Tanto più quando il fenomeno nasce da una crisi che accomuna e riguarda tutti. Nella consapevolezza di questa comune condizione è piuttosto da chiedersi se l'indicazione indipendentista che, quasi istintivamente il leghismo porta avanti, corrisponda davvero alle ragioni profonde, alle cause di quel malessere, dal quale il fenomeno leghista ha avuto origine ed alimento e del quale è, per molti aspetti, significativa e forse principale espressione.

Il dubbio appare del tutto legittimo. Ammesso, in via di pura ipotesi, che sia realistico e possibile circoscrivere a difesa, e delimitare, un pezzo imporrante di territorio, che si ritiene economicamente omogeneo e che, solo, in questa omogeneità economica, troverebbe il suo ubi consistam, è assai difficile pensare che ciò basterebbe ad esaurire e risolvere le cause vere della crisi e della stessa insoddisfazione.

Prima o poi, e più prima che poi, probabilmente, esse riapparirebbero anche all'interno di un nuovo, più piccolo Stato, per l'evidente ragione che il distacco di un pezzo di territorio e la nascita di un nuovo Stato, di per sé, non risolvono la crisi delle culture politiche, né ne inventano una nuova e ben difficilmente corrispondono alle questioni derivanti dalle radicali modifiche del quadro internazionale, e dal senso più profondo della deriva storica, che esse sottintendono.

Questa, se segna una domanda di attenzione verso ogni peculiarità e diversità, sembra indicare altresì la direzione, ed insieme l'esigenza, di un nuovo e diverso ordine mondiale, di una nuova, diversa e più stringente solidarietà tra gli uomini di tutti i Paesi e di tutti i Continenti, di un nuovo e diverso equilibrio, che superi, invece di consolidare, chiusure ed egoismi nazionali.

Se questa fosse l'onda lunga che muove nel profondo la storia degli uomini del nostro tempo, essa certamente sarebbe destinata, come sempre accade, ad incontrare resistenze, ostacoli, contrasti anche duri; ma, sia  pure attraverso fasi alterne e momenti di confusione, di incertezza, forse di paura, alla fine travolgerebbe le resistenze ed imporrebbe, ove non li avesse già messi fin d'ora, in qualche modo, in crisi, il superamento degli assetti e dei modelli istituzionali preesistenti. Si pone allora un intetrogativo che è poi l'oggetto centtale di queste tiflessioni conclusive.

Vien fatto da demandarsi, cioè, se non sussistano ormai rutti i segni di una crisi irreversibile dell'idea stessa e del modello dello Stato nazionale moderno, e se quell'intreccio, già prima rilevato, che ha caratterizzato il rapporto tra la nascita, lo sviluppo e l'espansione dello Stato moderno, e le culture politiche tradizionali, non implichi, con l'esaurimento di queste, la definitiva messa in discussione anche di quello.

Se così fosse, e se quella sopra indicata fosse la deriva della storia, il problema, lungi dal contrastare tale deriva, sarebbe semmai quello di costruire un progetto e proporre una cultura politica nuova, capace di coniugare l'inarrestabile spinta verso l'internazionalizzazione, con l'altrettanto forte e legittima esigenza di attenzione verso ogni diversità e, quindi verso ogni comunità ed autonomia.

Sta di fatto che, ad alimentare il disagio ed il malessere, concorrono almeno due elementi del tutto intrinseci al tipo di ordinamento proprio dello Stato centrale ed accentratore. Il primo è costituito dalla elefantiasi della spesa, cui consegue spesso la crescita abnorme del debito pubblico.

Il secondo dalla perdita dell'identità della persona, all'interno di un modello centralizzato ed uniformatore nella tutela dei bisogni.

Sotto il primo profilo, è evidente che l'imponente espansione dei compiti dello Stato non poteva non comportare una corrispondente crescita della spesa pubblica.

D'altra parte, le profonde modifiche intervenute nel costume, il progresso scientifico e gli stessi positivi effetti di una più ampia e diffusa tutela della salute, hanno introdotto grandi trasformazioni negli andamenti demografici, sia alla base, con la diminuzione delle nascite, sia al vertice, con il sensibile prolungamento della vita media. Tutto ciò ha significativamente accresciuto il numero dei beneficiari sia della previdenza, sia dell'assistenza, specie sanitaria, e quindi le ragioni della spesa.

Di converso, anche in virtù di grandi innovazioni tecnologiche, si è spesso avuto l'effetto di una restrizione della base lavorativa e contributiva del sistema, ed, in ogni caso, si è sensibilmente modificato, se non invertito, il rapporto tra contribuenti e beneficiari.

Gradualmente ed in modo via via crescente, allora, lo scompenso, tra le risorse introitate dallo Stato, attraverso il Fisco ed i contributi, e la mole della spesa, ha fatalmente comportato l'aumento crescente del debito pubblico.

Questo a sua volta, ha aggiunto un ulteriore ed automatica ragione di espansione e della spesa e di se stesso, per il meccanismo degli interessi, che ne costituiscono il costo, e che specie nel lungo periodo di inflazione alta, hanno rappresentato un moltiplicatore di enorme portata.

Già tutto questo, di per sé ha contribuito a diffondere un senso di alcatorietà, di insicurezza, di inquietudine, accrescendo ulteriormente, specie presso gli interessi più forti e nelle zone più benestanti, il malessere e la insoddisfazione.

Bisogna poi aggiungere che se la lunga fase di alta inflazione ha avuto prevalenti cause esterne, tuttavia, ha provocato gravi conseguenze interne, determinando una condizione generale, e quasi un'abitudine, con le quali si è convissuti a lungo2.

Essa si è accompagnata o, meglio, si è caratterizzata con una serie di eventi di straordinaria portata e ripercussione: la denuncia degli accordi di Bretton Woods; la guerra del Kippur; l'aumento del prezzo delle materie prime ed in particolare del petrolio; la nascita e lo sviluppo, nei Paesi produttori, delle industrie di prima lavorazione delle materie prime; l'affacciarsi sul mercato mondiale, specie dall'Asia, accanto al Giappone, di altri Paesi industrializzati fortemente competitivi; l'accentuatsi, anche per l'insieme di questi fattori, di quel processo di internazionaliz-

zazione dell'economia e quindi di interdipendenza che, già di per sé, spiega come la pressione inflazionistica diffìcilmente possa esser limitata entro confini nazionali.

Tutti questi fatti hanno profondamente modificato condizioni ed equilibri precedenti; travolto precedenti previsioni; cambiato i rapporti tra Paesi produttori e Paesi consumatori e/o trasformatori di materie prime; provocato reazioni, comportamenti, scelte all'interno di ciascun Paese, che, a loro volta hanno profondamente modificato assetti, progetti, andamenti e profezie antecedenti.

Basti pensare alle conseguenze che si sono avute in Italia, la cui industria era ed è essenzialmente trasformatrice e, particolarmente, agli effetti dirompenti che si sono qui avuti sulla ed. politica meridionalistica3.

Senza approfondire in questa sede un discorso importante ma in buona parte estraeo ed ultroneo rispetto alle riflessioni che interessano, è sufficiente rilevare che quel distacco del Mezzogiorno, o, meglio delle zone più depresse del Mezzogiorno, dal resto del Paese, che sul finire degli anni '60 era sembrato attenuarsi, non solo è restato, ma per certi aspetti è venuto aggravandosi mentre è cresciuta, e divenuta pressoché drammatica, una condizione troppo diffusa di disoccupazione, specie giovanile. Il problema della disoccupazione, peraltro, è ora emerso, anche al di fuori del Mezzogiorno, in Italia ed in Europa.

Esso si somma con l'altrettanto inevitabile riordino del Welfare State e ciò nel mentre si verificano le richiamate tendenze localistiche, delle quali, del resto la fine di qualsiasi tensione meridionalistica è, per molti aspetti controprova.

Lo Stato unitario si trova così a dover affrontare contemporaneamente problemi diversi e spinte di estrema difficoltà e complessità, rispetto alle quali l'ingresso nell'unità monetaria europea è certamente una condizione non trascurabile che, tuttavia, non sembra un risultato sufficiente e, di per sé decisivo.

C'è, poi ed inoltre, da considerare il secondo elemento costitutivo del malessere: la perdita di identità della persona all'interno dell'attuale modello di stato e di Welfare State. Tale modello, infatti, si basa sul principio di una tutela centralizzata ed uniformatrice dei bisogni dei singoli individui, i quali, in tal modo, diventano, e, quel che più conta, finiscono per sentirsi, un numero dentro il meccanismo dell'apparato: una pratica burocratica, un'entità anonima e fungibile.

D'altra parte questo fenomeno di perdita dell'identità e di progressivo generale appiattimento è indotto altresì dal diffuso consumismo o, meglio, dall'omologazione dei consumi, dei gusti, dei comportamenti in una condizione che conosce la scomparsa di grandi tensioni ideali e morali, l'assenza di idee unificanti, il prevalere del materialismo del vivere.

Perfino certi drammatici e, purtroppo non infrequenti, fatti di cronaca (i sassi dai cavalcavie sulle strade, i giochi pericolosi sui binari ferroviari, le varie forme di gare rischiose tipo roulette russa, per altri versi lo stesso consumo delle droghe, gli atti di violenza, le bravate, l'invenzione di originalità ad ogni costo) potrebbero essere manifestazione insieme di un grande disagio interiore e di una ricerca, a qualsiasi prezzo, di una qualche identificazione: un bisogno di affermarsi comunque, di essere riconoscibili e riconosciuti, di sfuggire al generale appiattimento.

Il ripiegarsi allora sul proprio particolare esaltandolo, la contrapposizione con qualcuno o qualcosa o con il resto, l'adesione a battaglie di vera o presunta diversità etnica, di rottura degli assetti attuali, di localismo, o anche di indipendentismo, diventano così facili e quasi consequenziali, convinti anche se acritici, sinceramente disponibili ad entusiasmi perfino accesi e tuttavia completamente privi sia di adeguate analisi che di un qualsiasi vero e nuovo progetto culturale. Per quanto si possa denunciare i limiti e le insufficienze di tutti questi fenomeni, resta comunque il fatto che essi esprimono un dato reale, un malessere profondo e mettono in qualche modo in crisi i modelli istituzionali precedenti.

HI. Inevitabilità ed inadeguatezza del federalismo - Una possibile risposta: lacomunità delle comunità - Democrazia capillare e pluralismo istituzionale -Il ruolo residuo della Struttura Intermedia - Piccola comunità e Comunità internazionale - Dubbi sulle privatizzazioni - Separazione tra amministrazione e gestione - Impresa e democrazia industriale: ipotesi problematiche -Carattere provocatorio delle considerazioni svolte.

Ritorna per le ragioni anzi dette l'interrogativo già posto precedentemente. Viene da chiedersi infatti se sia più possibile affrontare e risolvere tutti i grandi problemi che emergono e rimuovere le radici del malessere, senza una radicale trasformazione del modello statuale.

Non a caso, del resto, è ormai da tempo che, un po' da tutte le parti, si parla e anzi già si procede alla formulazione di ipotesi e di testi di riforme istituzionali ed, insieme, di riordino del Welfare State.

Una chiara intuizione di questa necessità, ed anzi qualcosa di più di un'intuizione si ebbe in Italia, dal 1982 in poi fin quasi al termine degli anni '80. Le analisi e le proposte allora più volte avanzate, le indicazioni e gli inviti espressi anche in precisi documenti politici, incontrarono tuttavia difficoltà, resistenze ed incomprensioni, che non consentirono di realizzare un processo di autorinnovamento e di riforme che, forse, in quel tempo, avrebbero potuto più facilmente e tempestivamente corrispondere a quella condizione critica, di cui si denunciavano abbastanza puntualmente i segni, già allora riconoscibili.

Ha, almeno in questa sede, poca importanza cogliere le ragioni, le eventuali debolezze ed insufficienze intrinseche o, viceversa, le sordità esterne, che non consentirono a quelle intuizioni ed a quell'impegno di avere esito efficace e positivo. Quello che conta è che purtroppo quel tentativo non riuscì e che tutti i problemi allora posti, e molte delle indicazioni allora avanzate, restano oggi sul tappeto pressoché intatti ed, anzi, aggravati da oltre dieci anni di ritardo.

Bisogna considerare ora in qual modo si pongano attualmente le grandi questioni che, per buona parte, erano già poste fin da allora.

Rispetto all'esigenza di una profonda riforma degli assetti istituzionali sembra prevalere un indirizzo che tende a dare sostanzialmente una risposta, nella chiave di una organizzazione federalistica dello Stato.

Questo si può comprendere e, per certi aspetti, appare pressoché inevitabile.

Sia consentito, tuttavia, di avanzare il dubbio che, di per sé, un qualsiasi federalismo non basta. Se la crisi dovesse investire, come si è detto, il modello stesso dello Stato tradizionale, essa non si risolverebbe e non si potrebbe risolvere, dividendolo in tanti sottomodelli, senza cambiarne radicalmente l'impostazione. In tal caso il federalismo potrebbe apparire più il portato di una frettolosa risposta inseguitrice, che non una risposta reale ed adeguata alla crisi dello Stato. Il dubbio è che tale crisi possa essere già andata oltre l'esigenza di un riordino, anche se radicale, e di un ampio decentramento autonomistico.

Forse la risposta vera alla condizione attuale non sta nel creare un qualsiasi aspetto federalistico, come non sta nella separazione e creazione di Stati indipendenti. Forse tutte le strutture intermedie, o di mediazione non sono più sufficienti e bisognerebbe andare oltre: puntare cioè direttamente sulle singole comunità creando intorno ad esse ampi e autentici spazi di autonomia4.

Ma comunità non sono solo i municipi ed il discorso fatto non dovrebbe limitarsi ad essi. Comunità è la scuola, ogni singola scuola, come ogni singola ASL e forse addirittura ogni singola impresa. Più in generale ogni reale Comunità di interessi potrebbe, e dovrebbe essere, il soggetto portante di una nuova articolazione dell'ordinamento.

Dentro ogni Comunità di appartenenza, tra l'altro, il singolo individuo è riconoscibile ed è riconosciuto, ha una sua identità di persona, con le proprie caratteristiche, che solo risultano e si riconoscono nella relazione con i vicini, anch'essi riconoscibili e conosciuti.

Nella Comunità inoltre gli stessi bisogni non costituiscono un'astrazione, ma un dato concreto, colto nella sua realtà, il che vuol dire anche nella sua peculiarità rispetto agli altri. Del resto, se ci si riferisce a quella prima comunità naturale che è la famiglia, si può, ad esempio, facilmente riconoscere che, se in una famiglia ci sono più figli ed uno di essi non va tanto bene a scuola, il padre di famiglia, o la famiglia nel suo insieme, curerà quest'ultimo e forse gli farà fare lezioni private da un insegnante.

Non chiamerà tanti insegnanti per quanti sono i figli, magari in nome di un astratto principio di eguaglianza: tutelerà invece il bisogno vero, lì dove esiste. Questo è dunque possibile nella Comunità, nulla toglie alla tutela effettiva dei bisogni e, realizzando l'equità concreta, invece della giustizia astratta, produce anche un contenimento della spesa.

Lo stesso riordino del Welfare State potrebbe forse trovare allora in un'articolazione pluralistica e diffusa, Comunità per Comunità lo strumento principale che, senza nulla togliere alle grandi conquiste del riformismo, consente di evitare sprechi, lungaggini, burocratizzazioni.

Naturalmente tutto ciò esigerebbe il massimo controllo democratico possibile, nella gestione e nella vita di ogni Comunità e quindi l'elettività del governo di ciascuna di esse. Esigerebbe cioè una diffusione capillare della democrazia e quindi una riforma istituzionale che non si limiti a ridurre il potere centrale per distribuirlo, tra altri poteri centrali e centralizzati, sia pure per territori più limitati, ma direttamente si articoli in un ampio e diffuso pluralismo di istituzioni e di autonomie5.

Alle strutture intermedie ed in particolare a quella nazionale, la cui permanente legittimità deriva dall'identità della lingua e della cultura di un popolo, resterebbero ovviamente alcuni compiti generali, che le singole Comunità, da sole, non potrebbero realizzare. Resterebbe altresì una funzione di coordinamento, capace di impedire ed insieme comporre il possibile contrasto tra le Comunità, di assicurare uno spazio di solidarietà delle più forti verso le più deboli, di mediare il rapporto con la più ampia Comunità europea ed internazionale.

Lo Stato, in tal modo, verrebbe per così dire a definirsi come una Confederazione di Autonomie o, per citare una frase di Henry Brugmans, come una "Comunità di Comunità"6.

Se questo riguarda immediatamente il vecchio Stato nazionale, potrebbe anche segnare una linea di movimento più ampia, destinata ad interessare le Comunità più alte e, per prima quella dell'Europa, superando così, come linea di indirizzo, sia l'idea di Europa puramente contabile, sia quella di una Europa degli Stati, per tendere a costruire l'Europa delle Comunità.

Come si è già avuto modo di ricordare, nel mondo di oggi si notano due spinte, egualmente vere ed apparentemente contraddittorie. La spinta della crescente internazionalizzazione di tutti i rapporti, e non solo dell'economia, e la spinta del localismo e del particolarismo. Forse il compito di una nuova cultura politica sta, fra l'altro, anche qui: non solo nel prendere atto dell'irreversibilità di entrambi le spinte, ma nel realizzare proprio su questo punto, una mediazione e composizione possibile, che salvaguardi insieme l'obiettivo alto di una grande unificazione e solidarietà mondiale, ed il rispetto scrupoloso ed attento di ogni peculiarità, di ogni etnia, del genio proprio di ogni ambiente e di ogni territorio, in una parola di ogni autonomia e libertà.

Conviene ora, sia pur rapidamente, riflettere su un altro aspetto riguardanteuna radicale riforma dell'ordinamento.

Nel dibattito attuale due sono i punti che sono apparsi emergere sugli altri: il federalismo e le privatizzazioni. Del primo si è già detto.

Sulle seconde sembra almeno legittimo avanzare qualche dubbio. C'è da chiedersi infatti se sia davvero corrispondente alle domande più profonde del tempo che si vive, la dismissione dell'impegno pubblico almeno per quanto riguarda le ed. grandi reti che, proprio perché tali, investono un territorio molto più vasto di ogni singola Comunità. Ciò soprattutto riguarda l'energia, i trasporti, l'acqua.

Naturalmente è opportuno distinguere il momento politico delle scelte e della programmazione da quello puramente gestionale. Che la gestione possa ed, anzi, debba essere privata, o comunque imprenditoriale, sembra del tutto comprensibile. Ma è difficile ritenere opportuno che la politica delle grandi reti sia lasciata a logiche privatistiche.

Questo richiamo però consente di introdurre un discorso più generale di riforma, riguardante la distinzione ed anzi la separazione tra il momento dell'amministrazione, che è politico e proprio dell'Esecutivo, e quello della gestione. La riforma del vecchio modello istituzionale probabilmente dovrebbe investire sia, ed innanzi tutto, la dimensione, per così dire, orizzontale, creando ampie e diffuse autonomie; sia la dimensione verticale, cui si riferisce la tradizionale distinzione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Anche nell'ambito di tali funzioni o poteri potrebbe e, forse, dovrebbe realizzarsi un'articolazione pluralistica, una più chiara e netta distinzione tra vari momenti e vari compiti. Un'ampia ed, anche fin troppo, appassionata discussione si è aperta, in questo senso, per quanto riguarda la funzione giudiziaria ed il rapporto

tra il ruolo inquirente e l'attività propriamente giudicante, anche in conseguenza dell'assetto accusatorio del nuovo Codice di Procedura Penale. Ma il problema riguarda anche il Parlamento e la distinzione o, forse, separatezza tra l'attività legislativa vera e propria e quella di controllo.

Riguarda soprattutto e l'Esecutivo e la separazione come appena detto, tra Amministrazione e Gestione.

Sia consentito, al riguardo, di ricordare come a suo tempo fossero state avanzate alcune proposte, che purtroppo caddero nel vuoto, su un punto importante di questa separazione: quello che riguarda la gestione degli appalti di opere e di servizi. Fu proposto allora che tale gestione venisse sottratta, a tutti i livelli, quindi anche nelle singole Comunità, alla responsabilità politica, per essere affidata direttamente alla società civile, tramite le organizzazioni professionali competenti, con la presenza eventualmente di magistrati amministrativi ed attraverso organismi elettivi, susseguentesi  a non lunga distanza di tempo. Anche qui allora si trattava e si tratterebbe di guardare alle comunità di interessi, alle organizzazioni naturali e spontanee che la società esprime e di ridurre la politica al compito alto dell'amministrazione, sottraendole un impegno gestionale, fra l'altro sempre rischioso. In ogni caso, anche su questo terreno, si tratterebbe di realizzare un più articolato e ricco pluralismo istituzionale.

I limiti stessi, già fin troppo allargati, del presente lavoro, non consentono ulteriori e più dettagliati approfondimenti. Vale tuttavia la pena di aggiungere un'ultima riflessione su quell'aspetto particolare, già prima accennato, che riguarda l'impresa.

Qui probabilmente si tratterebbe di sperimentare e lasciare alla spontaneità delle forze in gioco l'eventuale costituirsi dell'impresa come comunità. Nel corso degli ultimi tentativi, volti a proporre una riforma ed una rilancio dell'impegno meridionalistico, si propose, tra l'altro, l'idea del formarsi, nel Mezzogiorno, di associazioni o cooperative di giovani lavoratori, professionalmente ed adeguatamente formati, che potessero offrire, a costo competitivo, il proprio lavoro, in cambio, o nella prospettiva concordata, di una partecipazione agli utili di impresa e/o alla gestione, almeno nelle grandi linee della medesima.

Tale indicazione tendeva ovviamente a determinare, in tal modo, un forte incentivo per la nascita di nuove intraprese nel Mezzogiorno, risolvendo, con spontanee e volontarie scelte dal basso, l'antica discussione sul ripristino o meno delle ed. "gabbie salariali".

Al di là, tuttavia, di questa specifica indicazione, che pure trovò allora qualche attenzione, almeno in una parte del sindacato, lasciare, sia pure in via sperimentale, alla spontaneità dal basso, le scelte sul costo del lavoro, sulla partecipazione agli utili, sull'organizzazione interna dell'impresa, anche per renderla più competitiva, potrebbe essere l'occasione e lo strumento per sperimentare forme di democrazia industriale.

Recentemente è stata presentata in Parlamento una iniziativa legislativa di Alleanza Nazionale, che sembra muoversi in questa stessa direzione.

La cosa non sorprende perché nell'antico retroterra culturale della destra politica italiana c'è, fra tante cose anche contrastanti, una qualche attenzione verso le concrete comunità di interessi. Nello stesso fascismo italiano, che va ormai esaminato in sede storica, confluirono filoni ed elementi culturali diversi e contraddittori: l'irrazionalismo, il volontarismo, come l'hegelismo. In questo coacervo di tendenze varie, ed anche eterogenee, affiorò ad un certo momento la ed. dottrina del corporativismo, che trovò negli scritti di Ugo Spirito una qualche significativa dignità culturale. Tuttavia il corporativismo, assunto all'interno di una concezione totalitaria e di uno Stato dittatoriale, fatalmente si configurò come un fatto posticcio, una sovrapposizione imposta, artificiosa e burocratica. L'attenzione verso ogni concreta comunità di interessi esige invece il massimo di articolazione democratica e di tutela della spontaneità dei fatti.

Ma tornando all'ipotesi di sperimentare forme di democrazia industriale bisogna ovviamente rendersi conto che una siffatta questione ha una sua oggettiva complessità e, per così dire, una sua delicatezza. Può incontrare perciò dubbi, più che legittimi, difficoltà e resistenze. Tuttavia se la crisi fosse quella del modello centrale e centralizzante dello Stato, potrebbero riacquistare attualità alcune antiche, tradizionali intuizione della Cisl, nonché la tendenza al prevalere delle contrattazioni aziendali su quella nazionale o ed. collettiva.

D'altra parte, sempre ove il presupposto della crisi dei modelli verticistici fosse vero, tutte le strutture, le organizzazioni, le stesse associazioni che si modellano sull'articolazione verticale e centralistica dell'ordinamento, sarebbero fatalmente destinate ad esser messe in discussione e sollecitate a qualche ripensamento ed a qualche riorganizzazione. Ovviamente si tratterebbe sempre di processi e non di schemi precostituiti, definiti e certi.

Il farsi della storia costituisce sempre un processo. Non è dunque giusto e, forse, nemmeno possibile, una volta maturata, eventualmente, la consapevolezza della crisi di un vecchio modello, prefigurarne dettagliatamente, quasi a tavolino, un altro, costruito illuministicamente, dall'alto, come un meccanismo perfettamente organizzato e compiuto.

Per lo stesso agire storico e, quindi, politico, l'importante è individuare la direzione possibile di movimento, le linee portanti ed essenziali di un nuovo progetto, a quello corrispondente.

Questo vale in generale e, perciò, tutte le indicazioni sopra avanzate, e non solo questa ultima, lo sono in modo problematico, senza certezze e senza alcuna presunzione. Esse andrebbero quindi assunte più che altro come provocazioni, nascenti dal dubbio, più volte ribadito, che non sia più possibile risolvere tutti i grandi problemi attuali, all'interno dello schema tradizionale dell'ordinamento statuale.

In ragione di tale dubbio la rilettura della storia di un Libero Comune d'Italia come fu Orvieto, specie nei secoli XIII e XIV ha offerto ed offre un'occasione ed insieme un pretesto di riflessioni di una qualche attualità e forse anche utilità.


1 Vedi più avanti le considerazioni riguardanti lo storicismo, Hegel, Schopenauer,l'esistenzialismo, il recupero del Trascendente.

 

2 L'alta inflazione, cominciata sul finire degli anni '60 ha avuto origine, secondo l'ala monetarista, rappresentata dal Friedman, principalmente nell'eccesso di domanda, conseguente all'aumento dell'offerta mondiale di moneta, derivata dal disavanzo della bilancia dei pagamenti degli USA. Tale disavanzo avrebbe indotto un aumento del flusso delle esportazioni verso gli USA rispetto alle importazioni da esso. Avrebbe perciò provocato, in conseguenza della posizione dominante degli Stati Uniti e del dollaro, quale principale valuta di riserva, una crescita netta della domanda effettiva nelle economie del resto del mondo.

A questa spiegazione si è contrapposta, da parte di altri economisti, prevalentemente inglesi e di scuola keyncsiana, quella della inflazione da costi, che ha considerato, come origine della pressione inflazionistica, la spinta in alto dei costi ed in particolare dei salari.

Dalla prima teoria deriva, come logica conseguenza, la necessità di politiche restrittive della domanda, le quali, tuttavia, comportano, di per sé, periodi di sottoutilizzazione delle capacità di produzione e quindi sensibile disoccupazione. Dalla seconda teoria deriva invece la necessità di un'accentuata politica dei redditi e di controllo dei prezzi: politica sempre diffìcile, perché è difficile coniugarla efficacemente con la flessibilità necessaria ad ottenere l'indispensabile consenso sociale.

Probabilmente entrambe le contrapposte spiegazioni contengono elementi di verità.In ogni caso, nella grande complessità dell'economia moderna appare pressoché impossibile contare sull'utilizzazione di un solo strumento di politica economica.

 

3 Quest'ultima, nel ventennio precedente (anni '50-'60) era finalmente uscita dalla fase dell'analisi teorica e della declamazione, propria di tutti i periodi precedenti dello Stato unitario, ed aveva formato oggetto di un impegno puntuale, sufficientemente organico ed incisivo, portato avanti con la nascita e l'azione della Cassa per il Mezzogiorno. Acquedotti, bacini idrici, impianti di irrigazione, elettrificazioni, strade, scuole, ospedali, strutture ricettive, rimossero allora una condizione secolare di arretratezza, di miseria, di assenza delle condizioni stesse di un'elementare vita civile. Vi furono certamente anche errori ma solo chi ignora e vuole ignorare le condizioni reali di partenza, può negare o sminuire il valore e la portata dell'impegno attuato in quegli anni. Si può dire anzi che alla fine degli anni '60 si erano create nel Mezzogiorno d'Italia le premesse del superamento dell'antica arretratezza e dell'avvicinamento anche, per così dire fisico, al resto d'Italia.

Si era perciò, e certo non casualmente, ma conseguentemente, anche impostato e attivato un processo di industrializzazione di notevole dimensione, sia attraverso l'intervento diretto dell'impresa pubblica sia incentivando l'impresa privata. Processo che, abbastanza comprensibilmente riguardò tuttavia prevalentemente la ed. industria di base, sia nel settore chimico sia nel settore siderurgico. Successivamente, in proposito, si parlò e forse non del tutto a torto di cattedrali nel deserto. Ma bisogna dire, innanzi tutto, che questa fu una considerazione postuma ed, in ogni caso, essa ha avuto ed ha il limiti di una valutazione successiva all'insorgere della crisi generale dell'industria di base.

Niente consente di negare che, in un contesto internazionale che rosse rimasto sufficientemente coerente a quello in cui le previsioni e le decisioni di allora maturarono, la nascita di grandi impianti di base avrebbe potuto suscitare, a valle ed intorno, altre intraprese di trasformazione, di maggior valore aggiunto, stimolando in tal modo la crescita di un tessuto industriale più vasto e più diffuso. L'intervento straordinario, non meno della costruzione del Welfare State, e della riforma agraria è stato uno dei momenti importanti e positivi, della grande stagione riformatrice dello Stato democratico, della profonda trasformazione e del grande progresso dell'Italia. Gli eventi internazionali hanno poi finito per rovesciare le tendenze precedenti e per spegnerne moiri entusiasmi. Le profonde modifiche intervenute nel quadro internazionale hanno posto, allora, a tutta l'Italia problemi, sfide, rischi nuovi e diversi, che ben presto, quasi fatalmente, hanno portato ad un indebolimento ed anzi, determinato ragioni anche interne di una interruzione della politica meridionalistica. Gli interessi forti del Paese furono, per così dire portati a realizzare una qualche convergenza tra di loro, a tutela e difesa delle proprie condizioni e, con ciò stesso segnarono un atteggiamento oggettivo ed insieme psicologico, di disattenzione verso gli interessi più deboli e quindi verso il Mezzogiorno.

Emerse e prevalse allora l'esigenza di assicurare produttività, competitività, efficienza all'apparato produrtivo esistente trascurando o, comunque, posponendo le esigenze

diverse di un apparato i n fieri.

Non a caso in quel tempo, da allora e per molti anni, la Cassa per il Mezzogiorno sopravvisse con proroghe modeste e di breve periodo, che non consentivano più un adeguato respiro programmatorio.

Una nuova legge per il Mezzogiorno si ebbe solo molti anni dopo, quando lo slancio iniziale si era in qualche modo interrotto e, peraltro, in un tempo in cui era ormai nata e si era consolidata la realtà delle Regioni. La nuova legge non potè non tenerne conto, sicché si diede vita ad un complesso meccanismo per l'elaborazione di piani triennali e di singoli piani annuali ed esecutivi. Un meccanismo che in parte, per intrinseca farraginosità, in parte per l'inadeguatezza delle strutture regionali, nate da un tempo tutto sommato breve, in parte infine per l'indebolimento di quelle centrali, ove la lunga parentesi di fiacca aveva probabilmente spento antichi entusiasmi e provocato la fuoriuscita di alte professionalità, si trasformò, di fatto, in un andirivieni lungo e lento di pratiche, di richieste, di valutazioni, prima che si giungesse infine alle decisioni. Nonostante ciò vennero impostate e realizzate iniziative importanti come, in particolare, la nuova legge sulla ed. imprenditoria giovanile.

Complessivamente però l'intervento straotdinario apparve disperdersi, spesso in tanti piccoli rivoli, senza nemmeno giungere sempre ad opere definite e concluse. Più tardi, proprio alla fine degli anni '80 ci fu un tentativo di modificare questo stato di cose, concentrando su pochi progetti strategici le poche risorse disponibili e lasciando direttamente alle Regioni, senza l'andirivieni burocratico sopra accennato, la responsabilità delle scelte per una data quota di risorse ad esse direttamente erogate: tentativo che ebbe anche la consacrazione di un documento approvato dal Governo e della impostazione dell'ultimo piano triennale approvato, alla fine, anche dalle Regioni. Fu, tuttavia, un tentativo rapidamente interrotto dal succedersi degli accadimenti politici e, probabilmente fu anche un tentativo tardivo, che non riusci, e forse non poteva riuscire, a trovate adeguato consenso ed a rianimare una tensione meridionalistica, ormai pressoché spenta.

Stava maturando infatti quella più generale crisi politici che in poco tempo travolse in Italia tante cose e, tra esse, la stessa sopravvivenza di un intervento straordinario.

 

4 Non appare casuale e sembra muoversi in qualche modo in questa direzione, il fatto che molti sindaci di grandi città (da Napoli a Venezia etc.) hanno posto con forza l'accento sull'importanza delle autonomie comunali. Si potrebbe anzi forse ritenere che lo stesso successo elettorale recente di tali sindaci, certamente legato anche alla validità della loro gestione ed alle capacità dimostrate, esprima pur esso, tuttavia, un'esigenza profonda che muove dal basso, di affermazione delle municipalità e del bisogno di identità che in esse, in qualche modo, si appaga. Anche altrove, per altro verso ed in modo certo diverso e preoccupante, si è visto l'insorgere di segnali e di manifestazioni che, probabilmente, non possono liquidarsi come meramente folkloristiche, e rivelano anch'esse una qualche tendenza verso autonomie più circoscritte e, per cosi dire, più naturali. Certo si tratta di fenomeni che possono, ed anche rapidamente, degenerare. Ma i pericoli non si affrontano solo denunciandoli e nemmeno limitandosi, sia pure doverosamente a contrastarli. C'è anche una risposta che bisogna dare non alle manifestazioni, ma alle ragioni profonde che le alimentano e che possono suscitare intorno a quelle un alone di simpatie e pure anche di consenso.

 

5 Questa visione pluralistica, che investe la stessa articolazione dell'ordinamento, fu, come si è evidenziato nel testo, una caratteristica dei Liberi Comuni medioevali, intrinsecamente legata alla concezione della Trascendenza.

Come si vedrà meglio in seguito una fede trascendente suggerisce un approccio dell'impegno politico nella direzione della democrazia, della difesa ed espansione delle

libertà, del continuo rinnovamento e della consapevolezza che la gestione necessariamente assume un carattere di centralità e moderazione.

Conviene precisare, tuttavia, che la moderazione non va e non può essere confusa con la conservazione. Moderazione è solo il metodo della mediazione tra tendenze contrastanti e non può, per ciò stesso, identificarsi con nessuna di esse, tanto meno quindi con la mera conservazione dell'esistente. Moderazione semmai è sinonimo, non già di conservazione, bensì di quella tolleranza, che è il volto intellettuale della fondamentale virtù cristiana dell'umiltà e, come questa, necessariamente deriva dalla coscienza dell'insufficienza della ragione umana.

Chi ha una fede consapevole, inoltre, sa di potere ricavare da essa alcuni principi ispiratori, non soluzioni politiche puntuali, definite e precise. Le soluzioni per così dire tecniche non gli sono offerte dalla fede di per sé; ma sono il frutto della propria ricerca e di una elaborazione contingente. Ne deriva che essi vanno assunte come responsabilità, proprie e laiche, di cittadini. Ma c'è un'altra conseguenza, perché tutto questo significa che in politica non si può avere un approccio ideologico. La fede non offre un'ideologia, anzi rende consapevoli dell'impossibilità ed insieme astrattezza di qualsiasi ideologia. Tuttavia l'approccio alla politica non è e non può essere nemmeno puramente empirico, perché ci sono principi eterni, assoluti, sempre validi da cui non si può prescindere. Per chi ha fede quindi, l'approccio politico consiste, da un lato nel continuo e problematico sforzo di leggere la storia nel suo accadere e nei suoi cambiamenti, di confrontarsi quindi con i bisogni e le istanze che la muovono, di elaborare le risposte possibili; dall'altro, consiste nel rifarsi sempre a quei principi eterni, quasi fari che illuminano dall'alto il movimento, per ricavarne non già soluzioni tecniche, definite, ma, criteri di orientamento.

In questo senso, perciò l'impegno è quello di ricercare sempre e di elaborare, volta a volta, la sintesi possibile tra principi eterni e realtà mutevoli.

Nel formularla non solo si può sbagliare e spesso si sbaglia, ma, in ogni caso, non si raggiunge mai una verità certa che, in quanto tale, si possa imporre. Ma se ogni soluzione politica, in quanto afferente sempre alla mutevolezza delle cose umane, è di per sé imperfetta, inevitabilmente non possono essere ignorate anche le altre voci, le altre proposte o indicazioni che a quel mutare delle cose si riferiscono e da esso pure, in qualche modo derivano. Nasce da ciò la necessità dell'ascolto, dell'attenzione, del dialogo e perciò, ancora una volta, sempre della tolleranza. Né l'attenzione verso ciò che è diverso e perfino contrapposto può essere monovalente. Essa va rivolta a tutte le diversità, esige il rispetto ed anzi il riconoscimento non solo della pluralità delle idee, dei movimenti, delle opinioni ma anche delle comunità, delle autonomie, delle peculiarità di ogni zona, settore o territorio. Esige il rispetto e la salvaguardia del pluralismo, cosi delle idee come delle istituzioni. Quanto più anzi si ha coscienza che l'ordinamento, qualsiasi ordinamento, e quindi anche quello statuale non è un valore in sé, ma piuttosto un semplice strumento di organizzazione della convivenza civile e di garanzia delle libertà, tanto più si evidenzia l'esigenza del massimo pluralismo istituzionale possibile.

Non a caso, nel testo si è avuto modo di sottolineare come il modello dello Stato centrale ed accentratore, che dall'alto tutto dirige ed a tutto provvede, attraverso un massiccio apparato burocratico, contiene almeno il rischio di essere ritenuto un valore in sé e quindi di divenire strumento idoneo di pretese assolutistiche. La consapevolezza del limite della politica, e della necessità di una ricerca continua di cultura politica, appare più prossima perciò e, forse, più coerente ad un diverso modello di Stato.

 

6 Cfr. H. BRUGMANS, Panorama del pensiero federalista. Comunità, Milano I960.

L'opera del Brugmans, sostenitore del ed. federalismo integrale appare di grande interesse e suggestione anche se è datata ed, in certa misura, un po' troppo semplificante.

Essa costituisce, pur sempre, un utile strumento di riconoscimento e di lettura di tutto un filone di pensiero, autonomistico e federalistico che, tra l'altro, testimonia come le indicazioni sopra problematicamente avanzate, non costituiscano niente di originale ed anzi in qualche modo si rifacciano a quella che, nella prefazione del libro, viene considerata "una costante della storia dell'Ottocento e del Novecento che continuamente si contrappone alla costante del centralismo" e costituisce, secondo l'espressione del Brugmans, "il pensiero vinto che [...] tuttavia sempre si prende le sue rivincite'.

In questo filone, in modo vario, con motivazioni ideali anche diverse, si collocano intuizioni, denunce, analisi ed indicazioni che vanno dal l'roudhomme a W. Lipman a S. Weil, al personalismo di E. Mounier, J. Maritain, De Rougemont, al Movimento di Comunità di Adriano Olivetti, etc...