il domani

Mario Sirimarco
a proposito di sussidiarietà*


Condividi  

 

1.    Il ritorno alla sussidiarietà
Negli ultimi due o tre decenni diverse problematiche hanno riproposto prepotentemente il tema della sussidiarietà: il processo di costruzione dell’Europa come entità politica e non più solo come mercato comune; il disfacimento del comunismo nei paesi dell’est europeo; la crisi dello stato sociale, nella sua versione di stato provvidenza, nei paesi occidentali; la progettazione istituzionale più o meno federalista anche in paesi come il nostro; la necessità di ripensare la fenomenologia dei rapporti tra lo Stato, gli organismi territoriali e i privati, basato su un nuovo modo di intendere i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione nella prospettiva di un rapporto di parità delle parti o comunque di un maggiore coinvolgimento dei cittadini; il fenomeno della info-globalizzazione e della crescente complessità della società e delle sue problematiche economiche ed ambientali. Ebbene uno dei tratti comuni a queste tematiche è la riproposizione, appunto, al centro del dibattito e della progettazione giuridico-politica del problema dell’autorità, del suo esercizio, dei suoi limiti che è il vero punto focale del principio della sussidiarietà: «l’idea di sussidiarietà concerne – infatti – il ruolo dell’autorità in generale, e non solamente l’autorità dello Stato, e richiede che nella società nessuna autorità travalichi la sua sfera di competenze […] il difficile è proprio delimitare questa sfera di competenze, che si individua a partire dalle competenze dell’autorità inferiore – inferiore non quanto al valore, ma quanto all’estensione del potere. Una qualunque autorità deve insomma esercitarsi per sopperire all’insufficienza di un’autorità più piccola. Se questa insufficienza si manifesta, essa ha per contro non solamente il diritto, ma il dovere di intervenire» (Millol-Delsol).

Parlando del principio di sussidiarietà il rischio che si corre è di contribuire ad una sorta di utilizzazione retorica dell’espressione “principio di sussidiarietà” spesso usata solo come orpello per rendere più presentabile la comunicazione politica senza che, da parte di coloro che così agevolmente la maneggiano, ci sia un serio approfondimento sulle profonde valenze teoretiche ed etiche del principio. Altre volte, ed è un altro rischio molto attuale che si corre, è quello della utilizzazione in chiave ideologica della nozione di sussidiarietà sicuramente per la sua complessità o per la sua intrinseca ambiguità. In altre impostazioni si registra un certo sospetto verso un principio elaborato in un preciso contesto culturale e sociale e caratterizzato, sul piano teoretico, da altrettanto precise coordinate.

Del resto, sembra che la storia stessa del principio della sussidiarietà sia la constatazione della distanza sempre presente tra la enunciazione del principio, abbastanza chiaro pur nella paradossalità della sua formulazione teorica, e i tentativi di applicazione che spesso hanno condotto, e ancora conducono, a risultati completamente divergenti.

Emblematica da questo punto di vista, anche per le enormi conseguenze in termini di diffidenza generata, è la vicenda dello snaturamento del principio avvenuto con la tentata costruzione del corporativismo fascista. Ma si potrebbe ricordare l’esempio dell’ordinamento giuridico europeo che proclama solennemente in ogni occasione il principio, ma poi produce continuamente, rinnegandolo nei fatti, una normazione invadente e asfissiante. O ancora si potrebbe pensare a quella che è stata definita la “mancata attuazione” in una prospettiva sussidiaria dell’art. 2 della nostra Costituzione.

2.    Sussidiarietà vs. corporativismo
Il tema del corporativismo, in particolare, offre l’occasione per procedere ad una serie di precisazioni essenziali per delimitare correttamente il contesto teorico nel quale la sussidiarietà si colloca e per sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti che certamente non hanno giovato alla riflessione sul principio, direi, dalla Costituente in poi.
Il corporativismo, con tutte le sue implicazioni teoretiche, politiche e giuridiche, ha rappresentato senza dubbio un terreno di notevole elaborazione culturale, al di là naturalmente della sua concreta realizzazione nel ventennio fascista. Non è facile dare conto di un tema tanto complesso, oltre che estremamente controverso, in poche righe. Mi sembra molto corretta la ricostruzione di chi ritiene che, in realtà, «si trattò dell’avvio di un itinerario lungo e faticoso, che si svolse per tutta la durata del ventennio e che non ebbe mai né un compimento né concreta effettività nel tessuto socio politico» soprattutto perché «l’anima arrogantemente autoritaria del fascismo mal sopportava il significato pluralistico, più o meno coperto, che il corporativismo comportava, e fu proprio per questo che non si pose concretamente mano alla prevista e ipotizzata “seconda fase” di una strutturazione corporativa, e cioè alla realizzazione di una programmazione dell’economia nazionale affidata alle stesse forze sociali, all’autogoverno dei produttori» (P. Grossi). In questa sede mi preme solo ricordare quelle tesi che troppo sbrigativamente mettono insieme, partendo dalla comune matrice filosofica della rivisitazione del pensiero aristotelico-tomista, corporativismo (ma sarebbe meglio dire ‘corporativismi’ del ‘900), ideologia controrivoluzionaria cattolica e Dottrina sociale della Chiesa come espressioni di un comune tentativo di superare lo stato liberale ponendosi più radicalmente contro la modernità. Strumento essenziale di questa reazione è, appunto, il recupero dell’organicismo con la conseguente articolazione sussidiaria della società e dei suoi rapporti con lo Stato. Sono state evidenziate, in questo senso, alcune assonanze, se non vere e proprie identità di formulazione, tra la Carta del lavoro (del 1927) e la lettera enciclica Quadragesimo anno (del 1931)
[1] quasi a voler rivendicare una sorta di matrice fascista al principio della sussidiarietà, dimenticando però la enciclica Rerum Novarum[2], con tutta la riflessione successiva, ignorando completamente, prima ancora, la figura straordinaria di Antonio Rosmini, nelle cui opere si trovano interessanti spunti nella prospettiva della sussidiarietà, non considerando o sottovalutando le riflessioni di Luigi Sturzo[3], non tenendo conto, insomma, di tutto uno sforzo culturale, anche grazie all’influenza di pensatori stranieri come Maritain, teso a stabilire un dialogo, un ponte tra mondo cattolico, pur nella sua straordinaria varietà sul piano della visione sociale e politica, e il mondo moderno. È una prospettiva questa che si collega chiaramente alla tesi ripresa da ultimo da Pietro Prini, ma sostenuta soprattutto da Del Noce, secondo la quale, almeno per quanto riguarda l’Italia, «la filosofia cattolica, piuttosto che trattenersi nei falsi concetti dell’antimoderno o del postmoderno, ha rilevato una direzione diversa della modernità – quella teologica da Cartesio a Rosmini, accanto e contro quella atea da Cartesio a Nietzsche – aprendo la via alla fondazione di una metafisica civile, finalmente libera dalla mistificazione degli assoluti terrestri». In questa «metafisica civile», mi sembra, giganteggi la figura di Giuseppe Capograssi con le sue fondamentali opere di filosofia giuridica e politica, che rappresentano senza ombra di dubbio una delle critiche più vigorose allo Stato onnipotente, e con il suo magistero, non da tutti ancora conosciuto, di Socrate cattolico.
La giurista Ilenia Massa Pinto, in un documentato volume, ha ricostruito il dibattito richiamato nelle pagine precedenti ricordando che nelle tesi accennate fascismo e dottrina sociale in qualche modo avrebbero avuto l’obiettivo «di presentarsi come “terza via” rispetto ai due cattivi estremi del liberalismo e del socialismo: in comune avevano la convinzione della impossibilità di definire il soggetto nel chiuso della sua assoluta individualità, e della esigenza di individuare legami orizzontali fra soggetti che permettessero loro di sentirsi solidalmente responsabili di un’unità di cui si sentivano parte»[4]. Insomma corporativismo fascista e sussidiarietà della dottrina sociale sarebbero accomunati, sul piano teorico-politico, dal riferimento ad una visione organicistica e dalla elaborazione di un modello Stato-società tendente di una “terza via” contro il liberalismo e il socialismo.
Sulla inconsistenza teorica dell’equazione organicismo corporativo-pensiero della sussidiarietà non è il caso di indugiare più di tanto. Mi limito a richiamare una felice ricostruzione di Zagrebelsky: la caratteristica dell’organicismo sociale cattolico, rappresentato in primis proprio dalla Rerum Novarum, è dato dall’idea, ottimistica, che «i corpi sociali “naturali” siano destinati ad una pacifica coesistenza rivolta al rispetto e alla cooperazione, oppure che la società, nelle sue varie componenti sia in grado di sviluppare le energie materiali e spirituali per superare le proprie difficoltà […] da ciò la conseguenza che allo Stato deve attribuirsi un compito solo “sussidiario” nei confronti del libero esplicarsi delle forze sociali organiche […] la vita sociale deve trovare alimento e forza non dall’intervento dello Stato ma dallo sviluppo della solidarietà delle parti». Nell’organicismo tipico del corporativismo fascista, invece, lo Stato assorbe la società civile trasformandosi «in una grande impresa in cui ogni suo elemento sociale è chiamato a svolgere una funzione data, sotto la guida di un comando unitario. L’unità massima cui questo tipo di organicismo può aspirare si ha quando l’intera società viene indivisibilmente unificata sotto un unico principio di vita organica e identificata con un solo organismo vivente. Con questo, si distruggono i ‘gruppi intermedi’ e lo Stato appare come un unico organismo in cui ciascun individuo, come funzionario del tutto, è posto senza intermediazioni sotto il potere totalmente assorbente dello Stato».
Il corporativismo, in definitiva, lo ha notato puntualmente la Millon-Delsol, è vittima del paradosso delle conseguenze per cui «il principio è snaturato, nel senso che il criterio dell’ingerenza – l’incapacità o il bisogno – si trova arbitrariamente spostato a livello troppo basso o troppo precoce, a seconda che si faccia riferimento all’ingerenza nello spazio sociale o nello svolgimento dell’attività. Si dice che lo Stato interverrà solo in caso di incapacità o di bisogno, ma questa situazione viene dichiarata esistente subito, poiché l’interesse individuale – e dunque la libertà individuale – è considerato nefasto perché separato dall’interesse collettivo […] Questa svalutazione morale dell’azione individuale rende il principio di sussidiarietà inoperante perché l’intervento statale diventa necessario dovunque, o quasi».
3.    Il significato filosofico della sussidiarietà
Il notevole lavoro di ricostruzione di storia del pensiero sul principio di sussidiatietà realizzato dalla Millon-Delsol, nonostante le difficoltà che una simile impostazione comporta nel momento in cui si procede alla individuazione di profondissime e ramificate radici con lontanissimi precursori, oltre ad indicare una prospettiva essenziale per il giurista per dare un significato alla formula, offre tante utili indicazioni, permettendo di chiarire alcune controverse questioni e di far svanire quell’alone di sospetto. Sospetto alimentato, come accennato, sia dal contesto sociale e culturale nel quale il principio si colloca che è quello della dottrina sociale della Chiesa, sia dalla prospettiva teoretica che lo caratterizza: e cioè il principio di sussidiarietà come norma etica di diritto naturale che rispecchia l’ordine gerarchico ontologico delle comunità umane, cioè l’ordine nel quale si dispongono i corpi sociali, caratterizzato dal fatto che «il grado estimativo della natura di ogni essere è stabilito in relazione al fine ad esso proprio e alla capacità di raggiungerlo, sicché l’apprezzamento ontologico e la graduazione assiologica sono perfettamente simmetrici» (G. Scaccia). Questa premessa teoretica di caratterizzazione genetica del principio avrebbe comportato, in generale, la sua declinazione antinomica rispetto alla modernità e più in particolare, sul piano sociale e politico, la sua contrapposizione allo Stato liberale che aveva distrutto l’antico e ricco pluralismo sociale attraverso l’attuazione concreta dei principi della Rivoluzione francese. In questa prospettiva, che mi sembra estremamente riduttiva rispetto alla portata teoretica ed etica del principio, la sussidiarietà non sarebbe altro che l’espressione di teorie politiche e giuridiche reazionarie che auspicano il ritorno ad una concezione pre-moderna dello Stato e del diritto.
A questa tesi di può contrapporre quella che vede invece nel principio in questione un tentativo di gettare un ponte tra cattolici e modernità. Questo tentativo, mi sembra, si collochi in una prospettiva diversa da quella del ‘modernismo’ che, secondo l’aspra critica di Del Noce, ha avuto il limite di voler piegare il pensiero cattolico a quello moderno. Nella prospettiva qui delineata, utilizzando ancora Del Noce, possiamo dire che si percorre la strada individuata da Vico che parte non dalla semplice negazione del moderno ma dalla «enucleazione in esso di un momento positivo che non è però quello illuministico e rivoluzionario».
La elaborazione del principio di sussidiarietà avviene certamente in un contesto filosofico-politico che si preoccupa costantemente di individuare un percorso diverso rispetto ai modelli totalitari e collettivistici allora dominanti, che fanno leva sul paradigma organicistico-corporativistico, evitando però, allo stesso tempo, il modello teorico individualista (ma sarebbe meglio dire soggettivista), pur nella consapevolezza di vivere in una società individualista.
Se il corporativismo e l’organicismo guardano nostalgicamente ad un modello di ordine sociale che non c’è più ma che si vuole comunque ripristinare (da qui il totalitarismo e le dittature, e da qui il tentativo di, rifiutando organicismo e corporativismo, di ripudiare i modelli totalitari), ci sono altre correnti di pensiero che si pongono il problema di conciliare la dottrina sociale alla modernità fondando diversamente il ruolo dello stato contemporaneo.
Queste correnti sono essenzialmente due: il solidarismo di Pesch e il personalismo di Maritain. Il solidarismo apporta una «filosofia della finitudine nel senso che non bisogna attendersi dalla società temporale nessun paradiso, né che le strutture sociali producano formule magiche» (Millol-Delsol). Concetto, come è noto, costantemente ripreso dall’etica sociale cristiana. Scrive ad esempio Höffner: «La dottrina sociale cristiana – soprattutto nel suo orientamento politico, etico e pedagogico – non si prefigge come traguardo né un paradiso in terra, né una glorificazione trionfalistica del “mondo moderno”, bensì quell’ordine sociale che permette all’uomo di adempiere la volontà di Dio e di condurre una vita cristiana. Essa respinge pertanto sia l’utopismo sociale sia un cristianesimo spiritualistico da ghetto, che non riconosce alla fede cristiana alcuna capacità ordinatrice nel campo del sociale e abbandona il mondo al suo destino».
Il personalismo, invece, porta alla accettazione e alla giustificazione della società individualista secondo, però, la tradizione tomista. Il principio di totalità, letto in alcuni contesti in prospettiva totalitaria, in realtà non significa che l’uomo possa essere considerato un mezzo o che sia completamente sottomesso alla comunità. Significa che l’uomo può raggiungere meglio i suoi fini grazie al suo essere inserito in comunità più vaste. L’uomo, nella visione di San Tommaso, «non è né indifferenziato, né frammento incompleto, né ingranaggio privo di una propria finalità: ma un cosmos in se stesso, caratterizzato dalla sua attitudine all’amore nel senso proprio […] d’istinto naturale nell’ordine della grazia e di volontà morale dopo il peccato. Così il principio di totalità, per quanto possa apparire strano ai moderni, non esclude che il pensiero tomista sia la prima giustificazione della persona come un tutto» (Millol-Delsol).
In questa ricostruzione, il tema del bene comune, connesso al concetto tomista di totalità, ha rappresentato uno dei momenti più delicati del dibattito perché in esso la metafora organicistica rischiava di offrire lo spunto ai nostalgici di cui abbiamo accennato e soprattutto perché facilmente interpretabile in senso totalitario nel momento in cui si spiega l’attitudine umana al bene comune come appartenenza della parte al tutto.
Sul piano teoretico solidarismo e personalismo evitano, quindi, l’organicismo totalitaristico perché sono accomunati dal medesimo fondamento: entrambi pongono la persona umana come perno centrale della società. Evitano, altresì, il rischio dell’individualismo perché legittimano la dignità della persona sulla base del suo rapporto con Dio conferendo, così, all’individuo una dimensione trascendente: «una società razionalistica come la nostra può sorridere nel vedere che il valore essenziale della società si basa su un mistero teologico. Ma forse è proprio per questo che il valore della dignità rimane inalienabile. Avvalersi di un mistero – perché di questo si tratta – per sostenere l’uguale valore di tutti gli uomini, permette di sfuggire a tutte le descrizioni della dignità che finirebbero per rendere certi uomini più degni di altri […] In mancanza di un criterio veramente oggettivo, il criterio fondato sulla trascendenza rassicura quanto meno il desiderio profondo di una dignità inalienabile e assolutamente uguale per tutti» (Millol-Delsol).
È su questa nozione di dignità che si giustifica il necessario rispetto dovuto all’uomo e la predisposizione dei mezzi, tra i quali si colloca l’intervento dello Stato, per contribuire allo sviluppo della sua personalità.
Questa prospettiva è stata adottata sempre più chiaramente dalla Dottrina sociale. In una lettera destinata ai partecipanti al Convegno dei medici cattolici del 1956 ad Amsterdam, Pio XII riassume e fissa con chiarezza la posizione sua e dei suo predecessori: «Non è assolutamente provato che il punto di partenza e il fondamento di ogni struttura giuridica e di ogni giustificazione del diritto, sia la realizzazione voluta dal Creatore della natura umana perfetta, e che questo bene postuli la subordinazione dell’individuo alla società da cui dipende immediatamente, e di questa società alla società superiore, e così di seguito fino alla società perfetta, allo Stato […]. È una deviazione del pensiero chiaramente espresso dai Papi, considerare l’uomo nella sua relazione con la società, come se fosse inserito nel pensiero organico dell’organismo fisico. Il principio civitas propter cives, non cives propter civitatem è un’eredità antica della tradizione cattolica e fu ripresa nell’insegnamento dei Papi Leone XIII, Pio X, Pio XI non in maniera occasionale, ma in termini espliciti, forti, precisi. L’individuo (ecco il punto di partenza ufficiale della Chiesa) non è soltanto anteriore alla società per la sua origine, ma le è superiore per il suo destino […] La società non è che un mezzo universale per mettere le persone in rapporto con le altre persone. Questa relazione della parte al tutto è qui interamente differente da quella che esiste nell’organismo fisico. Quando l’uomo entra per nascita nella società è già provveduto dal Creatore di diritti indipendenti. Egli spiega la sua attività dando e ricevendo, e attraverso la sua collaborazione con altri uomini crea dei valori e raggiunge risultati, che da solo non sarebbe capace di ottenere, e dei quali egli, come persona individuale, non può essere il portatore. Questi nuovi valori manifestano che la società possiede una preminenza e una dignità propria; ma da ciò non deriva una trasformazione della relazione indicata fra individuo e società, perché questi stessi valori, come la società stessa, sono rapportati a loro volta, di loro natura, all’individuo e alla persona».
4.    Sussidiarietà, “terza via” e “stato minimo”: alcune precisazioni
Il diritto della sussidiarietà, nel senso di diritto-dovere di ingerenza dello Stato, ha come fondamento, dunque, la dignità della persona e il bene comune; la sua finalità è quella di valorizzare la persona ponendola al centro della dimensione sociale e politica come soggetto responsabile e creativo (autore/attore), sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si trova ad operare. Ecco perché, per esempio, tra ente superiore ed ente inferiore il principio offre la priorità a quello inferiore.
Questa priorità o anteriorità operativa significa, allora, che la sussidiarietà si traduce sempre in «un’azione di aiuto, di stimolo, orientamento, incoraggiamento, integrazione e solo in ipotesi residuali ed estreme di autentica ed integrale supplenza», che comporta, anche, «la consapevolezza che il rispetto del naturale (perché ontologicamente derivato) ordine gerarchico nell’azione sociale possa essere di ostacolo all’intrapresa delle azioni pubbliche indispensabili all’ordinato funzionamento delle economie del capitalismo avanzato» (G. Scaccia).
Il fatto che l’autorità sia supplente o secondaria non significa considerarla inutile o dannosa e non significa neppure sminuirla. Sussidiario significa anche secondario ma non eventuale perché «l’autorità non è la riserva, nel senso di una truppa di riserva della quale si spera di non doversi servire. Essa è una supplenza della quale la società ha sempre bisogno» (Millol-Delsol). Più specificamente: l’autorità è un mezzo, quindi è necessaria sulla base del bisogno che ne abbia la comunità/istanza inferiore; l’autorità è suppletiva perché viene incontro alle esigenze/insufficienze della società; ma, soprattutto, l’autorità è sussidiaria nel senso che si propone un soccorso positivo che si può spingere oltre perché «essa garantisce in qualche misura un supplemento d’anima, se vogliamo intendere così i mezzi della felicità perfetta, della quale Aristotele dice che è possibile solo nella città». In altri termini, l’autorità è necessaria perché non garantisce soltanto il benessere di ciascuno ma si preoccupa di lavorare alla completa realizzazione della società concepita come comunità.
Questa conclusione permette di chiarire due nodi problematici strettamente connessi e che sono al centro del dibattito.
Il primo riguarda il tema della c.d. “terza via”. Dalle considerazioni svolte in precedenza credo sia emerso che, nella prospettiva della dottrina sociale, la sussidiarietà non possa essere intesa come uno strumento di raffigurazione di una terza via tra liberalismo e socialismo, una formula compromissoria o eclettica che si costruisce attingendo dall’uno o dall’altro. Si tratta di un principio che esprime, invece, una concezione autonoma sia per quanto riguarda i presupposti teoretici, sia per quanto riguarda i contenuti e le possibili sfere di applicazione. Si tratta di un principio che esprime un pensiero fondamentalmente diverso dal liberalismo e dal socialismo. Di fronte al dibattito tra liberalismo e socialismo, la proposta della sussidiarietà è, sul piano teorico e sulle applicazioni pratiche, assolutamente “altra”. La dignità della persona, su cui si basa il dovere di ingerenza che caratterizza la sussidiarietà, non coincide pur comprendendoli né con l’uguaglianza né con la libertà che giustificano l’intervento statale nella visione socialista e liberista. Anzi, le applicazioni di questi modelli, nel capitalismo e nel marxismo, rappresentano (lo ha detto Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis) un ostacolo all’autentico sviluppo della persona umana.
Nella visione socialista non c’è spazio per una dignità umana su cui fondare i diritti e lo Stato, ma anche la responsabilità e l’azione del soggetto. Nell’individualismo filosofico, caratterizzato da contratti utilitaristici, non c’è spazio per una visione ontologica del bene comune, nel senso di un bene che attiene alla socialità e alla relazionalità umane[5]. Il nesso inscindibile tra una concezione sussidiaria della società e delle istituzioni di governo e la complessa questione del bene comune, “implica che il punto focale e fontale dei processi sociali e politici non sia, primariamente, l’anomico scontro di interessi e di diritti precostituiti nella rispettiva e reciproca impermeabilità, ma un asse di relazione e di riconoscimento che ne fa un luogo di autentico, seppur difficile, incontro tra gli esseri umani» (P. Savarese). Si tratta, in definitiva, come ha scritto bene la Millon-Delsol, di «un modello adatto all’uomo com’è, utilizzabile come norma nella misura in cui la descrizione dell’uomo individuale e sociale permette di esprimere una nozione di diritto naturale e fedele alla realtà moderna. La scomparsa della società olista obbliga a respingere la comunità organica a meno di non intenderla nella coercizione. Ma la certezza che l’uomo è un essere socievole obbliga pure a cancellare l’idea che esso agisca e si associ solo per interesse».
L’altro punto riguarda un tema che in qualche modo ha contribuito a creare quel clima di diffidenza che aleggia su molti discorsi sulla sussidiarietà che per alcuni sarebbe, partendo dall’aspetto economico, lo strumento principale per realizzare la prevalenza del privato sul pubblico o del mercato sullo Stato. Infatti, lo slogan “meno Stato più mercato” ha accompagnato in modo più o meno strumentale molte discussioni in materia[6].
Anche su questo punto credo che dalle considerazioni di natura teorica svolte in precedenza sia emerso che questa tesi non possa certo intendersi come corollario necessario, automatico, della sussidiarietà. Dalla formulazione del principio non si può ricavare l’oggettiva conseguenza della prevalenza del privato sul pubblico, o dei corpi intermedi legati al territorio sugli altri. La coesistenza direi genetica del dovere di non ingerenza e dell’obbligo di intervento comporta che nella sussidiarietà si pone solo, a livello di principio, una opzione di fondo per le formazioni sociali che non significa certo svuotare lo Stato facendone uno Stato debole.
Questo perché, sul piano politico, «le condizioni che giustificano una deroga a questo effetto traslativo “verso il basso” sono oggetto di una valutazione politica rimessa proprio all’ente autorizzato a porre in essere gli atti derogatori, al quale si offre così un formidabile e non sempre adeguatamente controllabile strumento per verticalizzare le competenze» (G. Scaccia). Con la conseguenza che «la norma di competenza sussidiaria» possa essere utilizzata come «strumento unilaterale di accentramento», come è avvenuto nel caso dell’integrazione comunitaria o come avviene laddove l’impostazione autenticamente autonomista segna il passo o si presenta estremamente contraddittoria.
Ma lo Stato non può essere debole perché il perseguimento della giustizia sociale e della solidarietà richiede uno Stato in grado di intervenire nella economia per ricondurla alla sua finalità sociale prevedendo anche la proprietà pubblica di quei beni che «portano seco una preponderanza economica per cui non si possono lasciare in mano di privati cittadini senza pericolo del bene comune» (Pio XI).
Viene subito in mente, a tal proposito, l’espressione di Aldo Moro dello Stato come forma organizzativa suprema della solidarietà umana. C’è un piccolo scritto (Valore dello Stato), coevo al dibattito in Assemblea costituente e alle più note posizioni morotee, che sintetizza in modo impeccabile il nostro tema: «l’impegno che ed il vigore con i quali i cattolici operano in sede sociale e politica, l’interesse che dimostrano ed il contributo che danno al rafforzamento delle strutture dello Stato manifestano che quell’azione non è episodica, non è frutto di improvvisazione o di deviazione dalle linee essenziali della concezione cristiana, ma risponde ad una intuizione profonda e ad una ardita visione delle vie da battere per una instaurazione cristiana nel mondo». Questa intuizione è il valore dello Stato come vincolo di solidarietà che stabilisce, come condizioni favorevoli che determina allo sviluppo di tutti i valori umani. In base a questa intuizione, scrive Moro, «se è giusto nell’azione politica volere costruire uno Stato che promuova una solidarietà veramente umana, che salvi ad un tempo la persona e la società, non è giusto invece, per una malintesa pregiudiziale cristiana spiritualistica e personalistica, volere uno Stato debole, inconsistente, incolore. Il vincolo sociale in cui lo Stato si risolve e costituisce la sua ragion d’essere è, o può essere, cosa talmente grande, talmente importante, talmente decisiva per l’uomo, che i tipici mezzi della giustizia forte, quelli storicamente più efficaci, debbono essere adoperati con ogni impegno, perché sorga con l’immancabile aiuto di uno Stato forte e serio una società sana e operosa».
Questa concezione dello Stato deve essere coniugata, per Moro, con quella che riconosce i limiti dello Stato e il suo essere inserito in un «complesso travaglio sociale» perché è grazie alla complessità dell’esperienza umana nella vita sociale che si stempera ogni pretesa monopolistica: «la considerazione della famiglia, il favore per le autonomie sociali che sono presidio di libertà, la rivendicazione costante e vigorosa dei diritti di tutte le libere associazioni umane sono i segni di questa complessa visione […] La preoccupazione cristiana di salvare la società nelle sue ricche e varie espressioni dal monopolio statale si salda intimamente con la difesa e il potenziamento dello Stato. Vero è che non si difende la società, senza volere lo Stato e che operando con una larga, organica, storica visione per lo Stato si opera a servizio dell’uomo e della società tutta»[7].
Questa tesi trova oggi ulteriori conferme nel momento in cui si concretizza uno «Stato sociale sussidiario»: dopo la caduta dei sistemi socialisti e la crisi dello stato sociale nei paesi occidentali, anche a seguito della integrazione sovranazionale e dell’internazionalizzazione dell’economia, la ripresa del principio di sussidiarietà «si pone certamente al di là dei modelli dello Stato-Moloc realizzatisi con il paralizzante assistenzialismo statale, ma non affida la dinamica sociale e i principi che la governano, come la valorizzazione del merito e della competizione, ad una deregolamentazione generalizzata del mercato, ed anzi richiede strumenti di controllo dell’economia più sofisticati che consentano di trarre tutti i benefici delle intraprese private senza, tuttavia, dimenticare i compiti di solidarietà e di promozione della persona umana che presiedono alla stessa formazione dello Stato moderno e del costituzionalismo” (S. Mangiameli).
In altri termini, lo stato sociale sussidiario comporta un cambiamento di mentalità del pubblico; occorre soprattutto un atteggiamento diverso da parte dell’amministrazione pubblica verso il mercato, per l’erogazione dei servizi pubblici e la fornitura di beni pubblici.
È importante ricordare, concludendo su questo punto, la ricostruzione radicale di Francesco Gentile, che è stato senza dubbio uno degli studiosi italiani che ha maggiormente riflettuto su questo tema. Il principio di sussidiarietà (che Gentile definisce “eversivo” in quanto si muove all’interno delle istituzioni trasformandole, destabilizzandole) pone al centro della sua attenzione la persona, i diritti della persona. L’incontro tra i diritti fondamentali e la sussidiarietà determina «il nuovo paradigma in grado di superare le dicotomie moderne (stato e società, autorità e libertà, pubblico e privato)» che hanno portato da parte del privato, «all’assoluta “ombelicità” […] al pensare soltanto al proprio ombelico» diventando sempre più “privato” e da parte del pubblico alla irresponsabilità del potere dovuta ad una progressiva statalizzazione dei fatti sociali: «la progressiva statalizzazione dei fatti sociali, economici e tecnici e insieme le teorie materialistiche che concepiscono la storia come un processo necessario, sono il tentativo di abolire il carattere della responsabilità personale, sino a scindere il potere dalla persona. E rendere il suo esercizio simile ad un fenomeno naturale, laddove per fenomeno naturale si intende un fenomeno di tipo meccanico». Rispetto a questo esito la sussidiarietà rappresenta «una vera e propria boccata di ossigeno, perché introduce tutti i meccanismi per i quali, da un lato, il privato non può pensare solo al suo ombelico […] E, dall’altra parte, si mette in atto una presa di coscienza della responsabilità personale (anche da parte di chi esercita il potere), che non può essere disattesa e che travolge e recupera una forma di relazione tra cittadini liberi […] cittadini attivi. Ma per essere attivi bisogna essere liberi. Perché altrimenti non si è attivi: il cittadino meccanico, non è un cittadino attivo» (F. Gentile).
Corollario del “nuovo paradigma” e crocevia essenziale del nuovo cittadino-attivo dovrebbe essere, in definitiva, una sussidiarietà che non si limiti ad un trasferimento di funzioni amministrative ai privati ma che si caratterizza più radicalmente come deregolazione in favore dell’autonomia dei privati. È in questa prospettiva che si colloca la centralità della figura del contratto sempre più chiamato, soprattutto a seguito della globalizzazione, a prendere il posto che nel diritto moderno è stato occupato dalla legge, che perde progressivamente la sua capacità regolatrice sulla società.
Questo tema investe, naturalmente, più in generale il problema del quid ius perchè, «si può sostenere la funzione suppletiva ed ausiliaria del diritto legale, cioè del diritto sancito mediante la legge, espressione della volontà sovrana dello Stato, solo se si riconosce preventivamente che l’ordinamento giuridico delle relazioni interpersonali comincia prima ed indipendentemente della legislazione statale. Ma per sostenere che l’ordinamento giuridico delle relazioni interpersonali precede la legislazione pubblica è necessario riconoscere preventivamente come esso proceda dalla disposizione naturale dell’uomo, di ciascun uomo, all’autonomia» (F. Gentile).
La discussione sul principio di sussidiarietà potrebbe, quindi, rappresentare un’utile occasione per affrontare uno dei punti cruciali della riflessione giuridica e politica dei nostri tempi: impostare sul piano teorico, anche e soprattutto a seguito delle straordinarie trasformazioni seguite alla info-globalizzazione, una riconsiderazione, un profondo ripensamento del diritto e della politica partendo dalla constatazione della crisi di quel modello giuridico-politico caratterizzato dalla eccessiva positivizzazione del giuridico, dal quel processo di monopolizzazione della produzione giuridica (magistralmente descritto da Bobbio), che ha portato alla esasperazione della dimensione formale del diritto e alla sua inevitabile subordinazione alla politica e al potere.
Il principio di sussidiarietà, nella sua forma più corretta, ossia come principio che parte dalla centralità della persona e della sua autonomia, ci richiama, sul piano del diritto, a recuperare una dimensione della giuridicità che fa leva sulla essenzialità della esperienza giuridica. Per questa via si supera «il preconcetto, veicolato dalla geometria legale, circa l’inettitudine dell’individuo a disciplinarsi, che conduce ad identificare l’ordine nelle relazioni intersoggettive con la volontà del sovrano, quale unico modo per creare una regolarità, quella artificiale imposta dalla legge, laddove vi sarebbe soltanto anomia» (L. Franzese).
In questa prospettiva, nella prospettiva della sussidiarietà, il diritto non è solo strumento del potere, non è solo forma in cui la politica riversa dei contenuti normativi; il diritto è prima di tutto qualcosa che è legato alla esistenza dell’uomo, alla sua dimensione relazionale ed intersoggettiva: «il diritto prende forma nell’esperienza umana coinvolgendo, più o meno direttamente, i suoi attori e destinatari nel loro riferirsi gli uni agli altri. Il diritto, in altri termini, prende forma, ben al di là del dato normativo immediato, come fenomeno socionomico, in un modo quindi che non può essere separato dall’ortonomia del movimento di costituzione della soggettività» (P. Savarese). Il diritto, in altri termini, prima di estrinsecarsi in norme ed istituti è essenzialmente “vita” secondo la lezione che da Antonio Rosmini porta, nel novecento italiano, a Giuseppe Capograssi e Sergio Cotta.
 


* Questo articolo riprende in forma sintetica alcune riflessioni contenute nel saggio Il principio di sussidiarietà. Alcune puntualizzazioni teoriche che ho pubblicato nel volume Casa Borgo Stato. Intorno alla sussidiarietà (a cura di M. Sirimarco e M.C. Ivaldi), Nuova Cultura, Roma, 2011, al quale rinvio per approfondimenti e indicazioni bibliografiche.
[1] Che, come è noto, si colloca in un momento molto delicato dei rapporti tra Fascismo e Chiesa cattolica quando il regime mostra il suo vero volto procedendo, tra l’altro, ad una forte limitazione dell’associazionismo cattolico. Così la Chiesa, finita la stagione della intesa (culminata con la stipula dei Patti lateranensi), con cui forse si pensava di realizzare quel “totalitarismo cattolico” vagheggiato nella enciclica del 1925 Quas primas di Pio XI, e della concorrenza sul piano sociale e teorico, passa ad un atteggiamento fortemente critico che riguarda certamente il tema dell’associazionismo, a seguito della decisione di Mussolini di far chiudere i circoli della gioventù cattolica e delle federazioni universitarie cattoliche, ma che concerne radicalmente la consapevolezza della incompatibilità tra Chiesa e fascismo stante la natura politica del regime come Stato etico, della sua pretesa totalitaria oggettiva. Questo aspetto emerge ancor più chiaramente nella successiva enciclica di Pio XI, Non abbiamo bisogno, del 29 giugno 1931, con la quale la Chiesa reagisce al proposito «di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di un’ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali della Chiesa». Per molti studiosi, solo da questo momento può iniziarsi a parlare di un antifascismo cattolico. Diversa la tesi sostenuta da Del Noce per il quale «è inesatto parlare, prima almeno del consolidamento dell’alleanza col nazismo, di un antifascismo cattolico che non si riducesse per gli anziani a una nostalgia del popolarismo e per i ristretti gruppi di giovani ad un distacco dalla politica»
[2] Nella Rerum Novarum del 15 maggio 1891 Leone XIII porta a compimento un, per la verità, molto controverso, percorso di rinnovamento le cui tappe iniziali sono le encicliche Diuturnum illud (1881), Immortale Dei (1885) e Libertas (1888). Nella Rerum Novarum per la prima volta si afferma la necessità di riforme sociali, anche se manca un’articolata visione dei rapporti tra individui, formazioni sociali e Stato, come avverrà invece con la Quadragesimo anno nel 1931 che presenta, invece, gli elementi di una filosofia politica contenente le linee essenziali di una vera e propria dottrina dello Stato e della libertà in cui la sussidiarietà si pone certamente come architrave.
[3] Anche don Luigi Sturzo elabora una proposta sociale e politica che, pur non menzionando il termine sussidiarietà, si inquadra chiaramente, come sostengono i più autorevoli studiosi sturziani, nella prospettiva della sussidiarietà. Uno dei motivi dell’affermarsi dei totalitarismi è per Sturzo proprio l’aver svuotato di autonomia le forme organiche economiche, l’averle fatte diventare degli organi burocratici facendo venir meno, così, la distinzione tra stato e società con una sorta di statalizzazione e politicizzazione della società (ma allo stesso esito conduce la socializzazione delle istituzioni): la sua idea di democrazia sociale parte proprio dalla irriducibilità di stato e società che comporta un aggiornamento dell’ordinamento giuridico nella prospettiva di una maggiore partecipazione democratica e di un maggior decentramento politico e amministrativo. Sul pensiero di Sturzo, G. De Rosa, Luigi Sturzo, Torino, 1977. Sul nostro tema, interessanti spunti in N. Antonetti, Dottrine politiche e dottrine giuridiche. I cattolici democratici e i problemi costituzionali (1943-1946), in I cattolici democratici e la Costituzione, a cura di N. Antonetti, U. De Siervo, F. Malgeri, Bologna, 1998, p. 118 e ss., che riconosce l’importanza del popolarismo sturziano nel dibattito, ricostruito puntualmente, che impegna il mondo cattolico sui temi costituzionali prima dell’inizio dei lavori dell’Assemblea costituente contro una storiografia tesa a dimostrarne la sua inadeguatezza rispetto alle esigenze dello costruzione del nuovo stato democratico.
[4] Sull’organicismo cattolico e in generale sulla contrapposizione tra modello totalitarista e individualista, da una parte, e organicistico e meccanicistico dall’altra, v. G. Zagrebelsky, Società – Stato – Costituzione, Torino, 1988. Sulla posizione del tradizionalismo cattolico (e sulla impossibilità di vedervi automaticamente un collegamento col fascismo), rinvio all’ormai classico lavoro di T. Serra, L’utopia controrivoluzionaria. Aspetti del cattolicesimo “antirivoluzionario”, Napoli, 1977, diffusamente. Per l’Autrice, «altro è il recupero strumentalistico e politico della concezione etica dello Stato, altro quel recupero del fondamento morale della vita associata e dell’istanza sociale della morale, quale si presenta nei controrivoluzionari cattolici» (p. 6). In questa ricostruzione, la polemica dei cattolici tradizionalisti «si situa forse in una fase intermedia e se, per certe interpretazioni che se ne sono fatte, i cattolici appaiono responsabili di una difesa dell’autoritarismo sia in religione che in politica, per altri versi essi, non che essere i fautori dell’assolutismo monarchico e religioso, auspicano una soluzione che, pur non intaccando l’assolutezza (che del resto assume un carattere funzionale) del principio, non dimentica mai di distinguere tra l’assolutezza del principio e la umanità di chi questo principio incarna e se sul piano religioso difendono un sistema monistico, sul piano politico si pongono a difendere il sistema sociale pluralistico che è a tutto vantaggio dell’uomo e della sua libertà» (p. 234).  
[5] Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate, Città del Vaticano, 2009. In questa ultima lettera enciclica, viene ripresa la tradizionale definizione di sussidiarietà con in più il riferimento importante (sulla scia della Pacem in terris di Giovanni XXIII, oltre che della Populorum progressio di Paolo VI) che proietta la sussidiarietà sul piano delle relazioni internazionali, al governo della globalizzazione: «Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetto sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano. Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace». Il principio di sussidiarietà è stato menzionato anche nella prima enciclica di questo Papa, Deus caritas est (del 2005), dove si afferma: «Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto”.
[6] Cfr. G. Cotturri, Novità e portata progressiva della sussidiarietà orizzontale nella Costituzione italiana, in «Gli argomenti umani. Sinistra e innovazione», n. 9/2003, e Culture e soggetti della sussidiarietà, in www.labs.it, consultato il 15-1-2011, che ricostruisce il contesto sociale e politico che ha caratterizzato il percorso delle riforme culminate con la modifica del titolo V della Costituzione e ricorda il tentativo di componenti neoliberiste del mondo cattolico di forzare la sussidiarietà orizzontale traducendola in una sorta di teoria dello stato minimo estranea alla nostra Costituzione. Per Cotturi, la sussidiarietà orizzontale introdotta nel 2001 è diversa da quella neoliberista perché l’art. 118 ultimo comma non riduce i compiti pubblici ma li estende «perché impegna le istituzioni di ogni livello territoriale a favorire – cioè a svolgere politiche di accoglienza e sostegno vero – l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale». Naturalmente la diffidenza resta in quella parte della cultura (di sinistra) incapace di pensare che l’interesse generale possa essere perseguito anche al di fuori dello Stato. Ma la novità, le cui implicazioni forse non erano del tutto chiare, è proprio questa: «l’accostamento tra istituzioni e cittadini rispetto alla possibilità di realizzare in concreto l’interesse generale […] Il cambiamento è così radicale, nella sfera concettuale, da mandare in soffitta i fondamenti tradizionali degli stessi saperi giuridici». Dello stesso autore v. anche, più ampiamente, Potere sussidiario. Sussidiarietà e federalismo in Europa e in Italia, Roma, 2001.
[7] L’euforia della stagione costituente prende il posto delle note pessimistiche che nella riflessione di Moro caratterizzano in definitiva le pagine che tratteggiano il ruolo dello Stato nel suo difficile compito di tutela della persona umana. Il tema è sviluppato soprattutto nelle lezioni di filosofia del diritto. Nelle lettere dalla prigione BR, nell’ultima tragica stagione della sua vita, questo tema ritorna naturalmente con tonalità diverse ma con la stessa drammatica intensità.